Mi verrebbe da dire: io ti odio Cesare. Caro mio, con le tue dimissioni hai scatenato un’ondata di vuota e inutile melassa che mi è rimasta attaccata ai polpastrelli dalla lettura dei giornali, di carta o web, che è scivolata dai social, dai siti, dalle rassegne stampa. È un paradosso, Cesare, ti voglio bene e ti ho sempre apprezzato, come uomo e come tecnico, dal nostro primo incontro, al tavolino di un bar della bella piazza di Orzinuovi, un mattino d’estate. Mi accompagnò all’intervista mia figlia Cecilia e tu fosti molto carino con lei. Fine dei ricordi personali.



La vicenda di Cesare Prandelli e la sua lettera di dimissioni (già solo per questo fatto, in Italia, scatta la causa di beatificazione) hanno provocato reazioni quasi lacrimose, da una parte, e astrusamente socio-antro-filo-ideo-logiche dall’altro. Ho visto citati in ordine sparso Marcel Proust, Arrigo Sacchi, Baltasar Gracian (beh, devo ringraziare perché nella mia ignoranza non sapevo chi fosse e ora lo so), mancavano solo Paco Pena, Mimmo Locasciulli e Cassius Clay, come diceva Fiorello.



Da un lato, ho assistito a una commozione di maniera staccata dalla realtà e, dall’altra, allo “spieghismo” che è la malattia senile di un giornalismo in via d’estinzione. Ma, soprattutto, ho visto esaltare qualcosa in cui, in questo calcio, nessuno crede: il rispetto.

Vi siete commossi, come sempre, per la vicenda umana di Cesare Prandelli, per la sua storia, per i suoi dolori esistenziali, ma senza comprendere che il suo è un addio “a questo mondo di cui ho fatto parte per tutta la mia vita ma che non fa più per me e in cui non mi riconosco più”. Questo dovrebbe far riflettere.



Il giudizio sul “mondo del calcio” di cui tutti quelli che hanno commentato la lettera di Prandelli fanno parte a vario titolo. La categoria del giudizio però ci manca e manca al calcio (e alla vita pubblica, ahinoi) in cui dominano ormai l’istinto, la logica del branco, il tifo sempre e comunque, l’irrazionalità, lo schieramento precostituito. Il calcio italiano, più che altrove, è un gioco al massacro, incapace di emendare i suoi peccati, di correggere le sue colpe. La commozione e il rispetto che ora manifestiamo a Cesare Prandelli, domani spariranno per lasciare spazio a insulti, convinzioni a prova di errore, sicumera, arroganza, violenza non solo verbale.

Questa vicenda è un’altra “favola bella che ieri t’illuse, che oggi m’illude, o Ermione” (scusate sono caduto pur’io nella citazione), come quella di Davide Astori, che tutti ricordano come uomo buono, padre amoroso, persona sensibile, ma che nessuno cerca di prendere come esempio. Un santino da mettere lì. Perché, dopo esserci commossi per queste storie di straordinaria umanità, dovremmo farne un punto di partenza per un cambiamento, per rivedere il nostro modo di relazionarci col prossimo, di vivere i sentimenti legati al calcio, per vedere di migliorare qualcosa.

E invece, scivolata via la commozione grondante melassa, resterà il solito orrido spettacolo in cui, a differenza di Prandelli, continuiamo a riconoscerci.