Francesco Spano si è dimesso. Lo ha fatto per evidenti ragioni politiche, che sono parecchio diffuse negli ultimi anni. Non è la diversa posizione sui temi dello scenario mediorientale e neppure una diversa impostazione delle politiche economiche tra neokeynesiani e liberisti. Il tema è la famiglia.

Pare per l’ennesima puntata di una pessima telenovela. Nella quale i protagonisti sembrano  epigoni di House of cards in salsa latina. Come diceva Mark Twain, del resto, la verità è più strana della finzione, perché la finzione deve avere un senso. Ministri che vanno via per flirt improvvisi, capi di gabinetto neo-nominati che vanno via in pochi giorni per le rivelazioni annunciate sugli incarichi dati al marito. Insomma una somma di episodi che denotano un solo tema. La classe dirigente vive in un costante coagulo di interessi personali e istituzionali che coinvolgono nella vita pubblica la propria vita privata. Famigli, amici, parenti, amanti presunte che diventano collaboratori o impiegati dei loro congiunti. Sempre con la solita scusa che non si può penalizzare chi si ama sul lavoro. Giuli ha citato un film francese per spiegare la situazione – Le placard (L’apparenza inganna) –, perché le dimissioni, si sa, sono come il vino: migliorano con una buona sceneggiatura!



In fondo, come diceva Voltaire, “la vita è un gioco, e le regole sono state fatte dai furbi”. E dare la colpa al sistema non aiuta a fare chiarezza sulle regole. O si va in pubblico e si affronta il tema del rapporto tra il proprio profilo pubblico ed i rapporti con i propri congiunti, dimostrando che tutto è in regola, o si accettano le regole del gioco e ci si mette da parte. Perché il momento storico che viviamo non ammette sbavature. Ognuno pensa di essere al di sopra degli altri prima di assumere determinati incarichi, salvo poi rischiare di comportarsi alla stregua di chi si è criticato.



Non è infatti diversamente comprensibile come Giorgia Meloni possa retrodatare il problema alla gestione dell’ex ministro Melandri, senza rendersi conto che aver messo alla guida di un ministero un capo di gabinetto le cui vicende personali dovevano essere ben note anche a lei, è un problema. Ma è anche e soprattutto una sorta di aggravante che mette il ministro Giuli in una posizione difficile. Il vero cambio di rotta sarebbe stato evidente solo se si  fosse accettato il fatto che un politico può svolgere il proprio incarico in piena libertà solo se si contorna di collaboratori e di esperti che siano competenti, ma anche e soprattutto prudenti, nell’esercizio dei propri poteri. Cosa che questa maggioranza al momento ha dimostrato di essere spesso incapace di fare.



Va detto però con chiarezza che questa vicenda non è altro che il riflesso di una diffusa e inveterata abitudine della classe dirigente nella sua interezza: difendere scelte spesso fatte solo per opportunità personale sostenendo che sono in realtà banalmente valutazioni di merito. Basta vedere come le università sono piene di professori con lo stesso cognome, di amanti o ex messe in posizioni di prestigio solo in virtù del sistema della cooptazione con il quale buona parte dell’attuale classe dirigente ha raggiunto i propri posti di comando. E quando la formalità dei concorsi, la competizione tra competenti, viene sacrificata a favore della scelta personale, evidentemente tutto il sistema rischia di saltare in aria. Se ognuno si sente perseguitato o “mostrificato”, se gli si fa notare che certe scelte sono state inopportune, evidentemente abbiamo superato il segno e sarà difficile tornare indietro.

Le dimissioni di Spano sono sicuramente un gesto di ossequio ad una moralistica visione della società, che tende a punire le condotte dei potenti ma ad essere indulgente con i propri vizi. Ma al contempo è un gesto di resa e di ammissione che qualcosa non era esattamente opportuno che fosse accaduto, ben prima di accettare l’incarico che era stato offerto.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI