La lettera non c’è ma le dimissioni sono reali. Il tono e le parole usate da Zingaretti rendono il gesto oggettivamente “irrevocabile”. Diciamo che ci è andato giù pesante. Con il suo messaggio via Facebook pubblicato nel pomeriggio di ieri, senza darne preavviso ai maggiorenti del partito, il segretario del Pd ha lacerato il clima sonnacchioso di un pomeriggio segnato ancora una volta dall’arrivo di nuovi drammatici dati sulla ripresa dell’epidemia.



Non si capisce quale sia stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, ma quello che può apparire ad una prima lettura come un gesto di stizza è pur sempre una reazione meditata a una situazione ormai divenuta insostenibile.

Zingaretti non ci sta a lasciarsi logorare a fuoco lento. Non può accettare – dopo aver fatto per mesi uno sforzo enorme per trovare di volta in volta la soluzione più unitaria – di essere ancora una volta messo all’indice e ritenuto il capro espiatorio per errori che, se commessi, sono stati fatti sempre all’unanimità.



Il sentimento principale di cui parla il segretario è quello della vergogna. Zingaretti fa esplicitamente riferimento ad un partito che in piena situazione di emergenza per l’arrivo della terza ondata, disquisisce da giorni di “poltrone e congresso” come se fosse normale farlo.

Zingaretti sente su di se il peso della responsabilità. È accusato di aver difeso la maggioranza che ha sorretto il governo Conte 2 oltre il lecito. Ma non è stato il solo a prendere questa decisione. E oggi che il governo Conte non c’è più e che l’avvocato è stato arruolato da Grillo nel lavoro di rilancio del Movimento, nel Pd si sono inevitabilmente riaperte vecchie ferite.



Il gruppo che ha deciso di aprire le ostilità è sempre lo stesso: fa capo ai sindaci di Bergamo e di Firenze, a quel Bonaccini, presidente dell’Emilia-Romagna che voleva aprire i ristoranti anche la sera come chiesto da Salvini pochi giorni prima di chiudere Bologna in zona rossa, a quel Matteo Orfini noto alle cronache per la disfatta romana che ha portato all’elezione della sindaca Raggi, al capogruppo al senato Andrea Marcucci, rampollo della nota famiglia lucchese di imprenditori della sanità. Insomma, quel nutrito gruppo di amici di Renzi che, dopo aver perso il congresso del 2019, non ha seguito il leader del cuore nel suo nuovo partito ma che è rimasto acquattato nel vecchio, pronti ad aggredire la nuova leadership appena si fosse manifestata la prima difficoltà.

Nella base del partito la notizia delle dimissioni ha creato sconforto e sono numerose le reazioni di chi vorrebbe – anche attraverso l’invio di raccolte di firme – far cambiare idea al segretario dimissionario. I leader della maggioranza – Orlando, Bettini, Franceschini, Cuperlo, Oddati – si appellano ad un voto unitario della prossima Assemblea nazionale convocata per il 13 marzo per respingere le dimissioni. Ma nulla potrà accadere senza qualche atto concreto che possa rendere chiaro che si è posto fine a quel vizio antico di dividersi appena iniziano le difficoltà. Sono talmente tante le teste che dovrebbero cadere che ad oggi appare più probabile che le dimissioni restino e che il Pd si avvii verso il congresso più difficile della sua esistenza.

L’impressione è dunque quella che il nome di Zingaretti si aggiunga alla lista dei “licenziamenti eccellenti” maturati dopo l’arrivo dello tsunami Draghi. Andrà probabilmente ad ingrossare le file di quanti hanno avuto un ruolo importante durante la prima fase della pandemia e che sono stati travolti dalla seconda ondata. Zingaretti ha condotto con lealtà il suo compito e non ha mai tradito il suo impegno a riunire il più lacerato partito della politica italiana. Lo ha fatto per soli due anni ma sembra già un’eternità.

Assisteremo ora tra i Dem a una battaglia dall’esito scontato tra chi vuole portare avanti l’alleanza con il M5s e chi invece ritiene necessario un percorso diverso. Il tema è sempre lo stesso. Ma anche il risultato alla fine lascerà sul campo le solite divisioni inconciliabili. E renderà inevitabile un’altra scissione.

Non trova ancora una volta soluzione l’antico dilemma di quale debba essere la collocazione del partito che più di ogni altro è servito a dare stabilità a quasi tutti i governi degli ultimi 10 anni. Dal 2011 è infatti al potere senza soluzione di continuità, tranne il breve periodo del Conte 1. Gli italiani lo ritengono un partito utile per mettere insieme un governo degno di questo nome, ma questo ovviamente non basta più. Dovrebbero anche prendere in considerazione di votarlo.

Insomma, ancora una volta, il partito nato per dare governabilità agli italiani rischia di finire la sua corsa e di arenarsi come un vecchio autobus in disuso, su cui tutti hanno preso almeno una volta posto ma che nessuno sente come suo.

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