Dino Petralia è il nuovo capo del Dap, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Dopo le dimissioni di Francesco Basentini, legate alle polemiche sulle scarcerazioni dei boss mafiosi, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha chiesto al Csm il collocamento fuori ruolo del procuratore generale presso la Corte di Appello di Reggio Calabria e la destinazione a capo del Dap. Si è scelto, dunque, di puntare su una toga antimafia. Ha cominciato la sua carriera in magistratura a Trapani con Giacomo Ciaccio Montalto, giudice ucciso da Cosa nostra. È stato giudice istruttore a Sciacca, dove ha cominciato a occuparsi di mafia. Nel 2006 è stato eletto al Consiglio superiore della magistratura. Quattro anni dopo è tornato a fare il pm a Marsala, mentre nel 2013 è approdato a Palermo come procuratore aggiunto, coordinando molte inchieste su mafia e corruzione. Del suo pool ha fatto parte Roberto Tartaglia, che oggi è vice capo del Dap. Tra le indagini più importanti spicca l’inchiesta antimafia “Mare Monstrum” che ha portato alle dimissioni dell’ex sottosegretario Simona Vicari e al coinvolgimento dell’armatore Morace per una vicenda di corruzione.
DINO PETRALIA NUOVO CAPO DAP: BONAFEDE SCEGLIE UNA TOGA ANTIMAFIA
Dino Petralia è poi arrivato nel 2017 alla Procura generale di Reggio Calabria. Un anno fa aveva fatto richiesta da procuratore a Torino, ritirando poi a sorpresa la sua candidatura, nonostante risultasse tra i favoriti. Le trattative per la nomina erano emerse dalle intercettazioni che un anno fa avevano scosso il Csm. Oggi invece l’annuncio del suo nuovo incarico al Dap. Bernardo Petralia, per tutti Dino, è descritto come un grande appassionato di musica jazz e cinema. Risiede a Trapani, lì dove ha cominciato la sua carriera in magistratura. La moglie, Alessandra Camassa, è Presidente del Tribunale di Marsala (Trapani), invece il figlio Paolo, che ha 27 anni, è da pochi mesi assessore allo Sport del Comune di Palermo. L’antimafia arriva dunque al vertice delle carceri. Un segnale chiaro contro chi attribuisce al governo la responsabilità di aver messo dei boss ai domiciliari. Il Guardasigilli ha scelto dunque un uomo che ha speso la sua vita nella lotta alle cosche e allo stesso tempo nell’approfondimento giuridico nel nome di una “giustizia giusta”.