DIO, IL VINO E LA FELICITÀ: D’AVENIA ‘LEGGE’ DOSTOEVSKIJ
A pochi giorni dalla Pasqua, nella rubrica sul “Corriere della Sera” di Alessandro D’Avenia, “Ultimo Banco”, al centro del dialogo ideale tra studenti e cultura viene riproposto un passaggio centrale de “I fratelli Karamazov” di Fedor Dostoevskij. Lo scrittore ed insegnante parte dalla provocazione di un ragazzo anni fa di fronte alle celebrazioni religiose: «Ma Gesù non ride mai?». Qui D’Avenia racconta i suo tentativi di “risposta” partendo dall’assunto che il Cristo è tutt’altro che un freddo erogatore di precetti che purtroppo troppo spesso compare nelle prediche delle nostre chiese: «Sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in sovrabbondanza», sono le esatte parole di Gesù riportate nel Vangelo di Giovanni.
Ed è proprio ricordando il primo miracolo pubblico compiuto dal Signore alle Nozze di Cana in Galilea che emerge con chiarezza il senso di gioia piena trasmesso da Gesù: se Nietzsche accusava il cristianesimo di non dare gioia, preferendo il dio greco del vino, Dioniso, D’Avenia preferisce il tormentato romanziere russo, «in tema di vino e balli, raccontai al ragazzo che Cristo ride. Nel villaggio di Cana in Galilea, operò infatti il primo segno di quella missione di dare agli uomini, già sulla terra, vita in abbondanza: durante una festa di nozze, in cui avrà ballato come era costume, trasformò sei damigiane d’acqua (250 litri) in vino, perché gli ospiti se lo erano già scolato tutto». Ballò, diede gioia con il vino ottimo e lanciò allo stesso tempo un messaggio al mondo: in Dio tutto è possibile, in Dio la gioia di vita piena non è solo promessa dopo la morte ma giunge a noi per concederci il “centuplo quaggiù”.
DA CANA ALLA PASQUA, IL COMPIMENTO DEL “CENTUPLO QUAGGIÙ”
Un “centuplo” già in questa vita per il solo “sposare” la libera testimonianza di Gesù nella propria vita: D’Avenia, come Dostoevskij, vede nel miracolo di Cana il segno originario di un compimento in arrivo poi con la Pasqua di Resurrezione: «Alëša, il più giovane dei fratelli Karamazov, riportando il dialogo con il suo maestro spirituale racconta: “Amo molto quel passo: sono le nozze di Cana di Galilea, il primo miracolo. Ah, quel miracolo, quanto mi è caro quel miracolo! Cristo visitò la gioia degli uomini, non il dolore, e compiendo il suo primo miracolo, contribuì a dar gioia agli uomini. Chi ama gli uomini, ama pure la loro gioia”», scrive lo scrittore siciliano citando i Karamazov dostoevskiani.
Il grande e geniale autore russo aveva capito benissimo come il segno inaugurale di Cristo nel mondo già diceva tutto della Pasqua: «Egli si è fatto uguale a noi per amore, e gioisce insieme a noi, converte l’acqua in vino per non interrompere la gioia degli ospiti, aspetta nuovi ospiti, ne invita continuamente di nuovi, e così nei secoli dei secoli». Dio, fin dall’alba dei tempi, «vuole la gioia dell’uomo», vuole che la festa umana «continui», vuole «vederci ballare»: per D’Avenia, citando il filosofo Byung-Chul Han nel suo libro “La crisi della narrazione”, «La religione cristiana è una meta-narrazione che cattura ogni aspetto della vita e le dà un ancoraggio all’essere». La Pasqua in arrivo domenica è il vero culmine della “narrazione” iniziata a Cana da Gesù, come intuiva Dostoevskij nei Karamazov: «siamo fatti per una festa che non finisce ma non abbiamo abbastanza vino, il vino (la gioia) che l’uomo produce non è sufficiente a soddisfare la gioia per cui siamo fatti e a cui aspiriamo. Serve “di-vino”». Un di-vino che è nato, cresciuto, acclamato, accusato, torturato, ucciso e visto risorgere nel mistero del Santo Sepolcro rimasto vuoto: un “di-vino” incontrato dalle donne fuori dalla tomba, dai discepoli stessi, ad Emmaus e in tutto il resto della storia umana attraverso lo Spirito Santo.