Con la sentenza numero 99 del 2024 la Corte costituzionale ha censurato – in quanto costituzionalmente illegittimo – il primo comma dell’articolo 42-bis della legge 151 del 2001 che regola il trasferimento temporaneo dei dipendenti pubblici con figli sotto i tre anni nella provincia (o regione) “nella quale l’altro genitore esercita la propria attività lavorativa”. Proprio questa frase è finita sotto la lente della Corte che dopo una lunga analisi è giunta alla conclusione che una simile formulazione è contraria allo scopo dichiarato dalla stessa legge di “favorire la ricomposizione dei nuclei familiari” dei dipendenti pubblici che – “nei primissimi anni di vita dei figli” – sono costretti “a vivere separati per esigenze lavorative”.
Prima di arrivare ai tecnicismi e al succo della sentenza vale la pena fare una piccola digressione fino al 2001 quando l’entrata in vigore della legge ha modificato le regole per il trasferimento temporaneo dei dipendenti pubblici (insegnanti, dipendenti comunali, postini e così via) legandolo al luogo in cui il partner esercita la professione. Nella sua prima formulazione, invece, il testo prevedeva anche l’alternativa – scelta oggi dalla Corte costituzionale come corretta – di trasferimento “ad una sede ubicata nella stessa provincia o regione nella quale è fissata la residenza della famiglia” oltre alla già citata sede lavorativa del partner.
Cos’ha detto la Corte Costituzionale sul trasferimento dei dipendenti pubblici
Ora, fermo restando (come già detto) che la legge sul trasferimento dei dipendenti pubblici è fine a favorire il ricongiungimento familiare ai sensi della – scrive la Corte Costituzionale in un comunicato sulla sentenza 99/24 – “realizzazione dell’obiettivo costituzionale di sostegno e promozione della famiglia, dell’infanzia e della parità dei genitori nell’accudire i figli” previsto dall’articolo 3 della Costituzione; la legge censurata “non risulta ragionevole” perché “non assicura una tutela adeguata in favore di quei nuclei familiari in cui entrambi i genitori (che sono al contempo dipendenti pubblici, ndr.) lavorano in regioni diverse da quelle in cui è stata fissata la residenza familiare”.
Ipotesi che – peraltro – secondo la Corte è “sempre meno rara, anche alla luce delle trasformazioni che hanno investito sia le modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative“, con un riferimento alla possibilità di lavorare in smartworking, “sia i sistemi di trasporto” che permettono ai genitori/dipendenti pubblici di spostarsi facilmente da una regione all’altra per lavoro. La conclusione della Corte è che a fronte di tutti questi aspetti “appare pienamente rispondente alla finalità dell’istituto” permettere ad “almeno uno dei genitori di lavorare, nel primo triennio di vita del figlio, in una sede che si trova nella regione o nella provincia in cui è stata fissata la residenza della famiglia e in cui è domiciliato il minore“.