Il momento di svolta sarà nel gennaio 2030, quando entreranno in vigore i nuovi limiti di inquinamento dell’aria proposti dalla Commissione europea. Il problema è che non si tratta di un semplice ritocco dei valori ma di una diminuzione di più della metà del tetto tollerato finora. Una vera e propria rivoluzione che in Italia ha messo in allarme regioni come la Lombardia, il Veneto, il Piemonte e anche l’Emilia-Romagna, preoccupate dalla prospettiva di dover ridurre troppo drasticamente le emissioni: secondo una stima, resa nota dal presidente lombardo Attilio Fontana, se i numeri rimarranno quelli indicati oggi dalla Ue nella direttiva per rientrare nei limiti previsti dovrebbe chiudere il 75% delle attività produttive.



Al momento, però, osserva Roberto Bianchini, professore a contratto di finanza infrastrutturale e direttore dell’Osservatorio Climate Finance del Politecnico di Milano, Academic Fellow per la Bocconi e partner di Ref Ricerche, si tratta di una proposta che deve ancora passare al vaglio del Parlamento europeo e che, quindi, potrebbe subire modifiche. Il tema non è tanto quello della sostenibilità ambientale, sulla carta condiviso da tutti, quanto delle modalità per conseguire un obiettivo particolarmente sfidante. Tanto che c’è già chi parla di una nuova “eurofollia”.



Professore, cosa dice la nuova direttiva Ue sulla qualità dell’aria?  Come cambieranno i limiti delle emissioni?

Per ora è una proposta della Commissione europea che è al vaglio del Parlamento, che sta svolgendo delle audizioni. Non è già tutto fatto. L’obiettivo sostanzialmente è di azzerare l’inquinamento entro il 2050 e di dimezzarlo entro il 2030. I valori indicati finora dicono che il pm 10 deve scendere da 45 a 20 microgrammi per metro cubo, il biossido di azoto e il biossido di zolfo da 50 a 20, il monossido di carbonio da 10 a 4. Più o meno i valori sono dimezzati.

Come si pone il problema delle riduzioni entro i limiti?



Data la tecnologia di oggi, per dimezzare le emissioni dovremmo chiudere, ad esempio, la maggior parte degli allevamenti. L’alternativa è fare degli investimenti per catturare i gas emessi dagli allevamenti stessi oppure investimenti per catturare i gas emessi dalle imprese, o ancora rendere queste ultime più efficienti affinché emettano meno gas.

Che cosa comporta l’adeguamento sotto il profilo delle tecnologie, degli investimenti e delle tempistiche? 

Sette anni è un periodo molto breve per implementare politiche adatte e vederne l’effetto. A volte le tecnologie non sono mature, ci vogliono degli investimenti, occorre trovare le risorse pubbliche: è tutto il processo che non è banale. È anche vero che la Commissione fissa degli obiettivi molto sfidanti sapendo che poi in sede di conversione si gioca al ribasso.

Ma da dove arriva l’iniziativa della Ue, a quali principi si ispira?

L’Organizzazione mondiale della sanità ha detto che l’inquinamento dell’aria è uno dei fattori più rilevanti nell’incremento delle malattie e dei costi sociali ad esse legati: la Commissione europea si è basata sulle evidenze dell’Oms, ha svolto un’analisi costi-benefici concludendo che complessivamente i benefici per la collettività, il miglioramento della qualità della vita e la riduzione dei costi sanitari superano i costi che devono essere sostenuti per raggiungere questi obiettivi. Come tutte le analisi costi-benefici partono da determinate “assunzioni” sviluppate in maniera scientifica però sempre sulla base di un traguardo stabilito dalla Ue.

Cosa verrà chiesto di fare allora per ridurre le emissioni?

Non c’è obbligo di chiudere le imprese o di non fare circolare le macchine: è ovvio però che se devi raggiungere certi obiettivi sta poi a chi governa il territorio implementare le politiche necessarie. L’aspetto più interessante della direttiva, comunque, è che viene introdotto in modo molto più forte il tema delle penalità, dei risarcimenti che i cittadini o la collettività possono richiedere nel caso in cui non ci sia il rispetto dei limiti indicati.

Oltre alle regioni italiane che hanno manifestato la loro contrarietà al provvedimento, anche Francia e Germania avrebbero espresso cautela. C’è la possibilità che la direttiva venga modificata?

Certo. Per raggiungere questi obiettivi ci vuole tempo, perché gli investimenti non sono banali. Chi oggi ha un allevamento produce inquinamento ma non paga per questo e chi mangia carne non paga per l’emissione di gas inquinanti nell’atmosfera implicitamente prodotti dalla carne che sta mangiando. Bisogna trovare l’equilibrio giusto tra obiettivi, costi e tempi che occorrono per raggiungere realisticamente gli obiettivi, individuando contemporaneamente chi deve metterci i soldi.

Come si spiega la levata di scudi venuta da alcune regioni italiane?

Gli obiettivi sono molto difficili da raggiungere: oggi non rispettiamo i limiti che sono il doppio, figurarsi arrivare alla metà.

Qual è secondo lei il vero tema?

Chi finanzia questi interventi. Chi si deve accollare i costi? Il pubblico, il privato, entrambi? Banalmente: se ho una macchina inquinante non posso più circolare, mi danno dei soldi per cambiarla o sono solo affari miei? Per le imprese è esattamente la stessa cosa.

Questa non è una difficoltà che avrà solamente l’Italia, varrà anche per gli altri Paesi: per questo è plausibile attendersi qualche modifica al testo iniziale?

Assolutamente sì. Sono gli stessi limiti per tutti i Paesi europei. Magari gli altri non hanno il problema dell’aria stagnante nella Pianura padana e per loro il ricambio dell’aria favorisce un po’ l’abbassamento dell’inquinamento, ma la situazione è più o meno la stessa. Forse i loro livelli di inquinamento sono un po’ più bassi, ma non della metà.

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