Alla fine lo ha detto. Con una disarmante chiarezza, condita da un tocco di gentile arroganza. Le parole sono fluite chiare saltellando dalle labbra fino all’intimo della platea della direzione nazionale. Lo sguardo fisso, rivolto al fondo della sala, a tratti si è posato sulle facce dei dirigenti a cui si rivolgeva solo affinché il tutto fosse chiaro agli altri, quelli fuori. Elly Schlein non vede altra strategia che portare al limite il conflitto con la parte “riformista” del Pd che le appare come un utile ingombro a cui dare addosso per ridefinire la propria identità.
La sua nemesi, il Matteo Renzi del 2014, aleggia ancora tra quei volti. La splendida, per loro, stagione delle riforme, del governo, del 40% è per Elly il momento del tradimento e dell’abbandono della casa madre. È lui il suo nemico vero, le sue idee, la sua visione. Per Elly Schlein serve il conflitto sociale, la radicalizzazione, la costruzione del fortino sempre più stretto e disagevole in cui contare chi è davvero con lei.
Perciò li mette a disagio e li sfida. Per capire chi davvero la segue e per dare agli elettori (potenziali) l’immagine di una leader che non fa mediazioni e che vuole, fortissimamente, ripristinare una tradizione storica e politica nel Pd(s), non governare la complessità ma semplificarne l’essenza. Distillarla. Ed avere attorno solo chi la pensa come lei. Gli altri, se non sono d’accordo, ne prendano atto. E addio.
Non c’è nulla di umorale o generazionale, si badi. La strategia è quella della presa di potere nel partito da parte dei bolscevichi contro i menscevichi del 1907. Allearsi con qualche Rosa Luxemburg e qualche Trockij per prendere il potere. Salvo poi farli fuori quando l’operazione sarà completata. Ad Elly serve questa radicalizzazione, questo tono diretto e senza mediazioni per impostare la linea imitativa della strategia meloniana. Radicalizzare l’identità, anche andando contro alleati e “amici”, per prendere un consenso tutto per sé quando il pendolo da destra tornerà a sinistra.
Nessuna ambizione di “governare la complessità”, che nel Pd è la norma. La sua tirata contro i logoratori è chiara. Non mi spaventate e non arretro. Questa è e sarà casa mia, non nostra. E quindi andate pure. Le serve questa posizione per continuare lo svuotamento dei 5 Stelle e presentarsi come coerente agli elettori delle europee a cui chiedere il voto “contro” il Governo, contro i suoi fiancheggiatori, contro i riformisti (che sono sempre di destra, per lei).
La strategia è un all-in sulle posizioni radicali. Se vincerà portando il Pd ad avere il 25% senza candidare cacicchi locali non allineati e con una linea da sinistra radicale potrà ambire al Governo, pensa. Se la linea sarà perdente sarà però uno schianto. Il Pd galleggia da sempre attorno al 20% proprio per la sua melliflua capacità di rappresentare un’area vasta della società e del Paese che comprende anche un pezzo di moderati che si sentono progressisti. Spaccare il fronte, espellendo il riformismo riflessivo e critico, significa perdere contatto con un elettorato potenziale che potrebbe andare altrove. Se quel consenso non venisse sostituito a dovere, anche il 19% delle politiche del 2022 potrebbe essere difficile da raggiungere.
Ma prima di allora il pallino è in mano ai riformisti. Stare o lasciare? Per ora staranno. In fondo lo scenario fuori dal Pd è ancora poco chiaro e quindi si metteranno in paziente attesa per capire, dopo la campagna estiva di Elly, che userà le ferie degli altri per legittimarsi in giro per l’Italia, se la posizione è efficace o il galleggiamento attorno al 20% resta l’unica certezza che il simbolo del Pd ha. Così fosse, cercheranno di piazzare i candidati giusti nei posti giusti per avere in mano gli eletti che servono, un domani, a riprendere il pallino.
Ovviamente sarebbe più cinematografica la scissione e l’adesione ad un nuovo progetto politico centrista con lo sguardo a sinistra. Ma se Elly ha preso ispirazione, non si quanto consapevole, dalla storia del Partito operaio socialdemocratico russo, qualcuno di quelli del Pd ricorda ancora le lezioni di Napolitano, Prodi e Veltroni. Ovvero che una sinistra che non sa parlare al centro, che lo rifiuta, che non sa governare la complessità e tende a semplificare con una linea a terra il mondo dividendolo tra “noi” e gli “altri”, difficilmente, in democrazia, potrà avere quel consenso che serve per essere forza di governo e di cambiamento. Può solo testimoniare, additare, espellere e sentirsi purificata dalle scorie del riformismo, ma resta un luogo chiuso e definito in cui, alla fine, si resta in pochi anche se sembra che “siamo tantissimi”. Se si vuole essere abbastanza, mia cara, si dicono gli altri, guarda verso di noi. Noi restiamo qui, in attesa, sul bordo del fiume.
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