Vorrei entrare nel dibattito sull’ennesima proposta in faccende di scuola, gettata dall’onorevole dietro al quale i media, chissà come mai, fanno sempre da grancassa. Me ne guardo bene dall’entrarvi rispetto alle più decisive riflessioni di carattere culturale, educativo e sociale che molti hanno già sviluppato in modo autorevole, dal card. Bagnasco in giù. Vorrei invece entrarvi solo per una sottolineatura di metodo, a mio parere cruciale in questi ultimi anni sulle vicende di scuola, limitandomi cioè, da preside, a guardare solo agli aspetti di praticabilità, dando per scontato di aver ben compreso il senso e le modalità indicate dal proponente. L’insegnamento della religione islamica a scuola secondo il modello dell’insegnamento della religione cattolica è stata messa lì senza nessuna attenzione a come la scuola funziona, alle esigenze principali di un insegnamento culturalmente significativo e ad aspetti di efficace andamento delle attività. Faccio solo alcuni esempi. Esiste un’autorità del mondo islamico in Italia, nell’estrema varietà e diversità delle sue componenti, che sia in grado di indicare, selezionare e formare gli insegnanti necessari? E in base a quali titoli culturali, rilasciati da chi e sulla base di quale norma? Un insegnamento senza insegnanti è proponibile? Ammesso anche che vi sia quella possibilità, chi dovrà controllare e garantire (anche e soprattutto per un buon insegnamento religioso) che la classe (che potrebbe essere anche composta da alunni non islamici che liberamente scelgano con diritto quell’ora) non diventi cattedra di indottrinamento ai limiti del lecito invece che di insegnamento? Ed a quale islam poi l’ipotetico insegnante dovrebbe rifarsi: sunniti, sciti o altro? Oltre ai nobili sforzi fatti dall’ex Ministro Amato, esiste con il mondo islamico, non solo italiano, qualche strumento giuridico paragonabile al Concordato in campo cattolico, (ammesso che tutti i rappresentanti islamici accettino di discuterlo), capace di introdurre l’ora di religione islamica in un quadro non solo di legittimità, ma di ordinata e chiara collaborazione con lo Stato, con tutti i suoi compiti e le sue istituzioni, oltre che di ampia reciprocità nelle relazioni internazionali ? E senza un quadro giuridico di tal genere come è possibile discutere di un insegnamento da inserire nel curricolo nazionale degli studi? Insomma la questione di metodo è molto semplice, e l’abbiamo purtroppo a ripetizione notata da troppo tempo: non sarebbe meglio che le proposte di cambiamento per la vita della scuola vengano non da un sistematico pressappochismo, ma ben conoscendo questo mondo complesso ed il contesto nel quale il problema si colloca? Quanti pasticci si eviterebbero!

Roberto Pellegatta