Il parere del Cnel, approvato dall’assemblea del 12 ottobre scorso, sull’inopportunità dell’introduzione del salario minimo legale, si basa su di una supposta contrapposizione dicotomica tra salario minimo e contrattazione collettiva. Quest’ultima è intesa come strumento, non solo principale, ma unico per la tutela di qualsiasi forma di lavoro dipendente. La contrattazione collettiva, piuttosto, per rinvigorirsi e far fronte a nuove sfide avrebbe solo bisogno di un maggiore sostegno pubblico. Si afferma, infatti, che “a sostegno della contrattazione collettiva” andrebbero “indirizzate ingenti risorse pubbliche in termini selettivi, verso i soli sistemi di contrattazione collettiva e bilateralità più consolidati”.



Insomma, la ricetta proposta – non tanto tra le righe – è in odore di autoreferenzialità. Soldi ad associazioni sindacali ma anche padronali, le quali poi dovrebbero subordinarne, nella contrattazione collettiva, la “fruibilità” da parte delle singole imprese alla condizione dell’integrale applicazione dei trattamenti retributivi complessivi garantiti dai contratti collettivi più diffusi, a livello nazionale di categoria. Un ancora inedito consociativismo.



La dispendiosa, complicata, burocratica macchina da guerra vagheggiata – peraltro molto improbabile nei fatti – dovrebbe gestire i finanziamenti pubblici e poi vigilare sul loro rispetto. Insomma, il parere del Cnel più che entrare nel merito della proposta del salario minimo, sembra rigettarla ideologicamente in quanto alternativa alla contrattazione collettiva. E in effetti “l’assemblea del Cnel… si dimostra compatta nel difendere il sistema della contrattazione collettiva”. In realtà, la visionaria soluzione “difensiva” della contrattazione dal rischio salario minimo legale si basa su di un abbaglio che è il caso di esplicitare.



Salario minimo e contrattazione collettiva a ben vedere non sono forme di tutela alternative o addirittura antagoniste, ma complementari e sinergiche a tutela dei lavoratori dipendenti.

Il salario minimo, giuridicamente, si configura come inserimento unilaterale nel rapporto contrattuale di una clausola legale a favore del contraente più debole. Ha un suo fondamento nell’art. 36 della Costituzione e costituisce, nello specifico, attuazione del diritto a una retribuzione dignitosa ivi richiamata. Un effetto unilaterale inderogabile che si ritrova peraltro negli articoli 36, 37 e 38 della Costituzione che dispongono analoghi effetti unilaterali nei contratti di lavoro a tutela di posizioni fragili (lavoro minorile, riposo settimanale, ferie, lavoratrici madri, lavoro femminile, parità di retribuzione, inabili…).

La contrattazione, invece, ha struttura bilaterale e il suo effetto giuridico si produce a seguito del raggiungimento dell’accordo. Ovvio. Nella nostra Costituzione essa è rafforzata in ragione del fatto che nella negoziazione il sindacato si presenta come rappresentante dei lavoratori iscritti e dunque unico contraente per gli stessi sul lato dell’offerta. È l’art. 39 che legittima e tutela tale posizione legale di forza, altrimenti sarebbe in contrasto con l’autonomia privata dei diversi soggetti. A ogni modo, la conclusione della negoziazione non è scontata in quanto per raggiungere l’accordo bisogna essere in due. Il contenuto dell’accordo è inevitabilmente condizionato dai rapporti di forza sottostanti alle parti contraenti.

Questo schema è in crisi. Esso ha avuto a suo fondamento strutturale nella storia repubblicana del secolo scorso: la figura paradigmatica del lavoratore dipendente a tempo indeterminato, specie nelle attività produttive, protetto da forme di licenziamento arbitrario e da abuso di potere datoriale dallo statuto dei lavoratori del 1970. Tale figura è ora recessiva se non marginale. Erosa dalla frammentazione delle figure di lavoro dipendente, nell’era della globalizzazione dei mercati. Ha fatto invece la sua apparizione la categoria dei working poor. Da noi introdotta grazie alle nuove tipologie di lavoro precarizzato codificate nella svolta neoliberista del Jobs Act nel 2015.

Lavoratori precari che spesso dipendono da evanescenti e impersonali controparti globali, ubicate chissà dove, e che interagiscono tramite app e mail. In queste labili situazioni relazionali, il supporto assicurato dall’art .39 Cost. sul lato dell’offerta alla contrattazione collettiva legale non ha più il fondamento strutturale della figura paradigmatica del lavoratore a tempo indeterminato e perde dunque consistenza. Anche diritto di sciopero (art. 40 Cost.) diviene, in queste situazioni, un’arma spuntata se non controproducente, stante che, nel nuovo quadro normativo post-Jobs Act, il datore di lavoro può licenziare anche lavoratori a tempo indeterminato, senza motivazione con una semplice comunicazione mail.

Assente completamente è poi la capacità di reazione collettiva, allorquando il lavoro dipendente è mascherato sotto forma di lavoro autonomo (a partita Iva). Il caso appunto dei rider, appena fatto oggetto di attenzione del Tribunale di Milano.

La contrattazione collettiva come strumento unico di tutela del lavoro dipendente, dunque, si trova oggi di fronte a una strada in salita. Non sarà certo l’auspicato sostegno finanziario pubblico a rimetterla in carreggiata.

Sul fronte datoriale, nelle situazioni strutturalmente deboli, ove predomina il lavoro precarizzato, è facile riscontrare una diffusa attitudine avversa alla contrattazione collettiva. Anche la rinegoziazione dei contratti scaduti latita, finendo così nel tempo la retribuzione originariamente contrattata al di sotto del limite “minimo” contemplato dall’art. 36 Cost. Proprio su di un caso del genere, e sul mancato rispetto dell’art. 36 Cost., ha fatto leva la sentenza n. 27711 del 02.10.2023 della Cassazione, che ha ritenuto che, nel caso specifico, la retribuzione non fosse in grado di assicurare al lavoratore un’ esistenza libera e dignitosa, nonostante fosse prevista in un contratto collettivo di categoria.

Come da molti rimarcato, è venuto meno il principio, finora indiscusso, che escludeva la valutazione di conformità all’art. 36 della Costituzione per i rapporti di lavoro regolati dai contratti collettivi. Cade così la presunzione di conformità costituzionale dei contratti collettivi. Parametro su cui poggiava precedentemente la giurisprudenza del lavoro. Il ribaltamento ha dunque aperto una stagione di supplenza giudiziaria. Sentenze inevitabilmente caso per caso, rimesse alla valutazione analogica e in definitiva all’apprezzamento sensato del giudice. In ogni caso, incertezze giurisprudenziali e ulteriori inevitabili fibrillazioni dei rapporti di lavoro.

L’introduzione per legge del salario minimo orario avrebbe il pregio di mettere fine a questa potenziale deriva giurisprudenziale, fornendo una base normativa certa al giudice del lavoro.

Anche la sentenza 3237/2023 del 19 ottobre scorso del tribunale di Milano, sull’obbligo di versamento dei contributi Inps a favore dei rider, copre un’altra falla regolatoria ed è al contempo un segnale critico per la contrattazione collettiva, peraltro assente da questi ambiti. La sentenza, al di sotto del mascheramento del lavoro dipendente come autonomo, disvela l’esistenza di un lavoro dipendente mal pagato precarizzato e bisognoso di un’esigenza legittima di protezione che un giudice, costituzionalmente orientato, non può non tutelare imponendo alla controparte (rivelatasi datoriale) il pagamento degli oneri contributivi. L’introduzione per legge del salario dovrebbe far chiarezza sul punto e ricondurre nell’ambito del lavoro dipendente anche quello nascosto dalla forma giuridica di lavoro autonomo non professionale. Appunto le partite Iva dei rider.

A ogni modo, in questo contesto precarizzato appare utopistico e al contempo fuorviante prospettare in alternativa un salario minimo per categoria affidato ai diversi contratti collettivi il cui rispetto sarebbe assicurato poi dall’occhio vigile dei sindacati e dalla loro capacità di gestire risorse pubbliche premiali per i più virtuosi. Questa superfetazione pubblicistica della contrattazione collettiva potrebbe risolversi nel suo contrario con l’effetto di emarginarla ulteriormente. Rimane sempre il punto che siccome per chiudere un contratto bisogna essere in due, in presenza di ulteriori cavilli e lacciuoli, la controparte datoriale, i singoli imprenditori, potrebbe tirarsene fuori, rafforzando la diaspora già in atto delle imprese anche dalle associazioni datoriali.

Difficile pertanto azzardare previsioni sulla fattibilità e sull’impatto delle misure palliative alternative ventilate nel documento del Cnel ma destinate a rimanere molto probabilmente solo sulla carta. La dice lunga, del resto, sul cattivo stato di salute della contrattazione collettiva, la continua erosione del potere di acquisto dei lavoratori. Impietose statistiche collocano l’Italia costantemente all’ultimo posto della classifica Ue degli ultimi trent’anni. Anche Istat (9 ottobre 2023) attesta oggi una regressione delle retribuzioni reali al di sotto dei livelli del 2009. Regressione imputabile, nello stesso documento, anche alla latitanza della rinegoziazione dei contratti collettivi scaduti.

Da qui l’importanza a tutela delle situazioni di working poor e anche a sostegno alla contrattazione collettiva, di intraprendere “la via maestra” del salario minimo orario per legge. E in effetti, entrando nel merito del suo funzionamento a regime, il salario minimo avrebbe anche il pregio di innescare un circuito virtuoso di progressiva emarginazione del lavoro nero.

La sua introduzione comporterebbe, infatti, in termini di diritto, l’inversione dell’onere della prova a tutto vantaggio del contraente più debole. In caso di giudizio per mancato pagamento del salario minimo, l’imprenditore dovrà fornire la prova di aver corrisposto quanto dovuto per legge, comprensivo, oltre che della retribuzione, anche dei contributi previdenziali nonché trattenute fiscali.

Effetti a costo zero per la finanza pubblica, anzi un possibile incremento delle entrate contributive e fiscali. L’inversione dell’onere della prova è un forte strumento di deterrenza. E, in effetti, dato che il termine per citare in giudizio la controparte datoriale perdura di gran lunga (5/10 anni) oltre la data di cessazione del rapporto di lavoro, il diritto al salario minimo rimane integro nel tempo e la potenziale futura sua richiesta è in grado di attivare in futuro un conflitto di interessi non gestibile dall’imprenditore disonesto che non avrebbe più alcuna forma di ricatto sul lavoratore una volta cessato il rapporto. In questo modo il salario minimo legale contrasterebbe la piaga del lavoro al nero, potendo il lavoratore al nero rivendicare quanto spettantegli in qualsiasi momento.

La misura legale, a costo zero per le finanze pubbliche, si contrappone pertanto al Reddito di cittadinanza e ad altre forme assistenziali pubbliche alla disoccupazione. In queste si può manifestare un interesse collusivo tra lavoratore e datore di lavoro al nero, pena la perdita per il primo del denaro assistenziale. Nel momento in cui il Reddito di cittadinanza viene ridotto – come oggi sembra volersi fare – alla sua funzione essenziale di sostegno a chi non è in grado di procacciarsi effettivamente un lavoro, non si capisce il motivo per cui “gli occupabili” non dovrebbero essere tutelati con il riconoscimento del diritto al salario minimo legale. Direi di più: in ipotesi, esteso il diritto a tutte le forme di lavoro illegale, il salario minimo potrebbe anche rompere la collusione vanificando la convenienza dell’imprenditore a ricorrere al lavoro nero, stante il rischio di un latente successivo insorgere del conflitto di interessi a suo danno. Se così fosse gli imprenditori onesti, che pagano regolarmente retribuzioni, contributi e tasse, sarebbero tutelati dalla concorrenza sleale di chi lucra sul lavoro nero o sottopagato e meno tentati all’emulazione dei più furbi.

Uno zoccolo duro salariale minimo legale, a protezione dei working poor, potrebbe determinare anche un effetto di rilancio della contrattazione collettiva. La convenienza ad astenersi dalla contrattazione incontrerebbe, infatti, nel salario minimo legale un limite strutturale. Anche la rinegoziazione bilaterale dei contratti scaduti se ne potrebbe avvantaggiare.

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