Le recenti notizie di cronaca riguardanti gravi infortuni sul lavoro suggeriscono una riflessione sulla possibilità del lavoratore di rifiutarsi di svolgere la prestazione laddove non siano assicurate le necessarie misure di sicurezza e, più in generale, sul diritto del collaboratore di rifiutarsi di adempiere ad ordini aziendali illegittimi senza incorrere in sanzioni disciplinari o in altre conseguenze pregiudizievoli.
Ai sensi dell’art. 1460 c.c., nei contratti con prestazioni corrispettive – quale è il contratto di lavoro – “ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l’altro non adempie … Tuttavia non può rifiutarsi l’esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede“. Ne consegue che il lavoratore può legittimamente rifiutarsi di svolgere in tutto o in parte le proprie mansioni a fronte di un inadempimento o di un ordine illegittimo del datore di lavoro qualora, tenuto conto delle circostanze concrete, il suo rifiuto del lavoratore non risulti contrario alla buona fede.
Secondo il recente insegnamento della Cassazione, la verifica della sussistenza della buona fede deve essere svolta mediante “una valutazione comparativa degli opposti adempimenti avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse, con la conseguenza che ove l’inadempimento di una parte non sia grave oppure abbia scarsa importanza … il rifiuto di adempiere la propria obbligazione non potrà considerarsi in buona fede” (Cass. n. 770/2023).
Applicando i predetti principi alla materia della sicurezza e tutela dei lavoratori la Cassazione, con sentenza n. 28353/2021, ha ritenuto giustificato il rifiuto di due dipendenti di un’azienda di trasporto di condurre un treno merci con il modulo “di equipaggio misto” (vale a dire con a bordo soltanto un Tecnico Polifunzionale Cargo) e, pertanto, in assenza di altro macchinista o agente abilitato alla guida.
In particolare, la Corte ha rilevato che, ai sensi dell’art. 2087 c.c., il datore di lavoro è obbligato ad assicurare condizioni idonee a garantire la sicurezza delle lavorazioni ed è tenuto ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Dunque, la violazione dell’obbligo di sicurezza legittima i lavoratori a non eseguire la prestazione eccependo, ai sensi dell’art. 1460 c.c., l’altrui inadempimento al fine di garantire l’effettività della fondamentale tutela della salute e sicurezza dei collaboratori.
Nel caso di specie era risultato che il Tecnico Polifunzionale Cargo fosse adibito ad assicurare l’arresto e l’immobilizzo del treno in caso di emergenza, ma non a condurre il convoglio in caso di malore del macchinista, con possibile sussistenza di un pericolo per i lavoratori e per terzi: da qui la giustificatezza del rifiuto opposto e l’illegittimità della sanzione irrogata ai dipendenti.
In un altro caso la Corte di Cassazione ha recentemente considerato, invece, contrario a buona fede il rifiuto di alcuni macchinisti di un’azienda di trasporto di prestare servizio come “agente unico” a partire dalle ore 4:25, in anticipo rispetto all’orario ordinario delle 5:00. La Corte ha ritenuto corretta la valutazione comparativa del comportamento delle parti effettuata dalle sentenze di merito le quali avevano rilevato, da un lato, l’assenza di profili di illiceità penalmente rilevanti nella richiesta di turno allargato e, quindi, l’assenza di pregiudizio per le esigenze vitali dei lavoratori e, dall’altro, le conseguenze negative che tale rifiuto aveva provocato sul funzionamento del servizio di trasposto pubblico gestito; stante l’assenza della buona fede, i giudici di merito e legittimità hanno ritenuto legittima la sanzione disciplinare conservativa irrogata ai dipendenti (Cass. n. 10277/2023).
Anche in ipotesi di trasferimento della sede di lavoro, il dipendente può legittimamente rifiutarsi di prendere servizio nella sede di destinazione laddove il provvedimento non sia adeguatamente giustificato (Cass. n. 29054/2017).
Com’è noto, ai sensi dell’art. 2103 c.c., il mutamento della sede lavorativa deve essere giustificato da sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive. La mancanza dei predetti requisiti configura una condotta illecita che può legittimare la mancata ottemperanza al trasferimento da parte del lavoratore. Tuttavia, anche in questo caso il trasferimento contra legem non giustifica in via automatica il rifiuto del lavoratore, dovendo essere proporzionato e conforme a buona fede (Cass. n. 434/2019).
In base ai suddetti principi la Corte di Cassazione ha ritenuto corretta la sentenza di merito che aveva accertato la conformità a buona fede della condotta della dipendente dando rilievo all’offerta della prestazione presso l’ufficio originario, alle sue esigenze familiari (assistenza ai genitori inabili conviventi, uno dei quali titolare dell’indennità di accompagnamento seppure non portatori di handicap grave) e al pregiudizio a tali interessi vitali conseguente alla distanza del luogo di nuova destinazione. Sulla base di tali valutazioni la Corte ha ritenuto legittimo il rifiuto della lavoratrice al trasferimento (Cass. n. 14138/2018).
In un altro caso, ai fini della verifica della sussistenza della buona fede, il Tribunale di Catania ha valorizzato lo scarso preavviso dato al lavoratore, la lontananza della nuova sede di lavoro, la messa a disposizione del lavoratore presso la sede di appartenenza nonché la “scarsa verosomiglianza” delle ragioni poste a base del trasferimento che da subito ne evidenziavano l’illegittimità. La sentenza ha, quindi, ritenuto giustificato il rifiuto al trasferimento opposto dal lavoratore e illegittimo il successivo licenziamento disciplinare irrogato a quest’ultimo (sentenza n. 298/2018).
Nel caso, invece, di adibizione del lavoratore a mansioni inferiori, ai fini del giudizio di conformità a buona fede del rifiuto di svolgere la prestazione impartitagli, la giurisprudenza prevalente e più recente ha utilizzato un criterio più restrittivo, tenuto conto che il diritto da tutelare è la professionalità del lavoratore e non il diritto primario della vita e della salute.
Nei casi di demansionamento la giurisprudenza ha, infatti, ritenuto che l’art. 1460 c.c. può essere invocato solo nel caso di “totale inadempimento del datore di lavoro o in ipotesi di gravità della condotta tanto gravi da incidere in maniera irrimediabile sulle esigenze vitali del lavoratore” (Cass. n. 26199/2022).
Sulla base di tale presupposto, la Corte ha confermato la sentenza d’appello che aveva ritenuto legittimo il licenziamento di una dipendente che si era rifiutata due volte di sottoporsi alle visite mediche propedeutiche di idoneità disposte per il cambio delle mansioni assegnate (da impiegata amministrativa ad addetta alle pulizie), contestando un illegittimo demansionamento; i Giudici hanno rilevato che il rifiuto della lavoratrice non era giustificabile ai sensi dell’art. 1460 c.c. perché da un lato l’azienda si era limitata ad adeguare la propria condotta alle prescrizioni imposte dalla legge per la tutela delle condizioni fisiche dei dipendenti nell’espletamento delle mansioni assegnate e, dall’altro, la dipendente avrebbe ben potuto impugnare un eventuale esito della visita, qualora non condiviso, ovvero l’asserito illegittimo demansionamento, innanzi agli organi competenti.
Sulla scorta degli stessi principi la Cassazione ha ritenuto non integrante un inadempimento così grave “da incidere sulle esigenze vitali del lavoratore“, l’assegnazione a un’infermiera di una casa di cura di mansioni di pulizia dei reparti e dei locali della struttura non comportando “un danno così grave alla professionalità” della dipendente (Cass. n. 9060/2016).
Va infine ricordato che la recente normativa in materia di whistleblowing (già obbligatoria per i datori di lavoro che occupano più di 249 dipendenti e applicabile dal prossimo 17 dicembre alle aziende che impiegano almeno 50 lavoratori dipendenti) prevede una particolare tutela per il lavoratore che segnala, in via anonima, al datore di lavoro la possibile commissione di violazioni o omissioni penali, civili, contabili od amministrative. La nuova normativa può costituire un ulteriore strumento di difesa del lavoratore nei confronti di ordini datoriali illegittimi, laddove essi arrechino un danno o un pregiudizio anche all’integrità dell’ente.
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