Con la sentenza di inammissibilità con cui i supremi giudici hanno rigettato il ricorso, la Cassazione ha ritenuto non impugnabile dal PM la valutazione di una delle due condizioni di legittimità dell’interruzione di trattamento, da lei stessa indicata nella sentenza dell’ottobre scorso, e cioè l’irreversibilità dello stato vegetativo permanente (l’altra era la prova del consenso all’interruzione), in quanto posizione contrapposta al “diritto personalissimo del paziente all’autodeterminazione terapeutica”.



Con questo nuovo pronunciamento la Cassazione ha così finito per smentire se stessa: è ora sufficiente per il tutore dimostrare la volontà di interruzione al trattamento del paziente, restando sullo sfondo la prova dell’irreversibilità della sua patologia, in quanto una volta ottenuta l’autorizzazione, nessuno – se non il tutore stesso, che dunque non lo farà avendo proprio lui attivato la procedura – potrà impugnare la decisione ove si abbiano dubbi sulla effettiva condizione di irreversibilità. Del resto proprio questo è capitato nel giudizio, dove il Procuratore generale presso la Cassazione ha, da un lato, propeso per l’inammissibilità del ricorso, ma, dall’altro, lo ha ritenuto nel merito fondato, proponendo l’accoglimento per l’erroneità dell’indagine sull’irreversibilità dello stato vegetativo.



Così però si afferma il principio che l’interruzione al trattamento vitale è legittima, anche se un soggetto di garanzia costituzionale, come è il procuratore, ritenga erronea la valutazione in base alla quale si autorizza l’interruzione.

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