1. Ripartire dal bisogno di giustizia comune a ogni uomo

L’amministrazione della giustizia in Italia è oggi circondata da una diffusa disistima da parte della società, che la giudica generalmente inefficiente e spesso asservita a logiche di parte, antitetiche a quel carattere di indipendenza che dovrebbe costituirne il connotato essenziale.
A ciò si accompagna una generale disaffezione da parte di molti operatori, dovuta al senso di inutilità del proprio lavoro: enormi risorse umane ed economiche sono impiegate per la celebrazione di processi destinati spesso a non avere alcun esito concreto (si pensi agli effetti, sotto questo profilo, del provvedimento di indulto o alla celebrazione di processi nei confronti di persone irreperibili, delle quali è addirittura incerta la vera identità e che mai verranno identificate), sicché l’imponente macchina giudiziaria appare non di rado funzionale solo a logiche di autoconservazione burocratica o di soddisfacimento di esigenze corporative.
Il risultato di questa situazione è l’attuale paralisi del sistema giustizia ed il sentimento di impotenza e di rassegnazione che affligge quanti, impegnati come operatori del diritto, vorrebbero contribuire ad offrire un servizio che rimane essenziale per una società civile: una giustizia che realizzi il suo scopo, cioè l’“attribuire a ciascuno il suo”, per usare l’espressione del brocardo latino, scolpito su molti palazzi di giustizia del nostro paese.
Le cause e le responsabilità di questa situazione sono molteplici, ma una cosa è certa: la crisi della giustizia non è solo crisi di efficienza, sicché non è possibile porre la speranza di un cambiamento esclusivamente in una migliore organizzazione.
I problemi posti dall’amministrazione della giustizia in Italia esigono innanzitutto il coraggio di un’umile rifondazione in termini di senso, prima ancora che interventi tesi all’utopica razionalizzazione dell’esistente, giacché tutti – operatori ed utenti – stanno pagano lo scotto di scelte fatte, per troppo tempo ed a diversi livelli (promulgazione delle leggi, organizzazione dell’apparato giudiziario e dell’avvocatura), prescindendo da quell’essenziale dimensione costituita dal bisogno di giustizia che ognuno reclama a gran voce, perché presente nel cuore di ogni uomo, ed il cui soddisfacimento è la condizione per una pacifica convivenza.
È innanzitutto questo bisogno che è stato tradito in questi anni: sui temi della giustizia – temi sensibili per l’opinione pubblica proprio perché riconosciuti rispondenti ad un sentire umano innato e condiviso – si è infatti parlato ed agito in termini troppo spesso strumentali, per fornire copertura a posizioni ideologiche, giustificazione a pressioni di gruppi di potere, adesione ad inaccettabili soluzioni compromissorie, con le quale i diversi poteri (politici ed economici) hanno di fatto perseguito i propri interessi particolari, piuttosto che tendere al giusto fine del bene comune, sacrificando le proprie pretese particolari.
Si è abbandonata, in altri termini, quella “sensibilità alla verità” che, come richiamava Benedetto XVI nel discorso preparato per la visita all’Università della Sapienza, non può essere sopraffatta dalla “sensibilità per gli interessi”.
È dunque necessario ripartire da un onesto e responsabile atteggiamento di fronte al bisogno di giustizia: riconoscere tale bisogno permette di fondare una unità reale ed operativa tra quanti, con diverse funzioni e posizioni di responsabilità, intendono rispondervi, pur consapevoli che la giustizia è un ideale al quale si deve tendere e che non potrà mai essere compiutamente realizzato.
È solo a questo livello che appare possibile un confronto proficuo che – anche nell’ambito di un sano compromesso politico – sappia tradursi per il bene di tutti in scelte culturali chiare e verificabili da ciascuno in termini di auspicato beneficio.

2. Il recupero della responsabilità

Qualunque discorso riformatore dell’amministrazione della giustizia non può prescindere dal recupero dell’idea di responsabilità di tutti indistintamente gli operatori della giustizia.
Per la magistratura, si tratta innanzitutto di andare oltre un’astratta e spesso strumentale idea di indipendenza che, muovendo da una non realistica immagine di un giudice slegato dal contesto culturale e sociale in cui opera, lo ritiene mero applicatore della legge secondo processi logico-giuridici neutri. È ben noto invece che nell’applicazione della legge spesso il giudice – talora inconsapevolmente – opera delle scelte di valore, delle quali deve dunque assumersi la responsabilità e che deve pertanto onestamente esplicitare, per permettere un reale controllo della società sul suo operato: un controllo finalizzato alla verifica del rispetto non solo della lettera, ma anche dello spirito della legge. Il giudice non opera infatti in una torre d’avorio avulsa dal contesto sociale e chi lo afferma non fa che proporre una pericolosa mistificazione, tesa spesso a mascherare posizioni ideologiche nell’esercizio della giurisdizione. Solo questa consapevolezza permette di evitare che il pur indispensabile valore dell’indipendenza della magistratura (principio cardine irrinunciabile di ogni ordinamento democratico) si risolva nell’avallo di arbitrarie posizioni soggettive.
L’indipendenza implica dunque sempre una responsabilità di fronte a qualcosa ed a qualcuno. Per il giudice significa responsabilità di fronte al supremo bisogno di giustizia, in una costante ed intellettualmente onesta tensione all’attuazione della sovranità popolare espressa dalla legge, tanto più quando essa – come spesso accade – lascia inevitabili margini di scelta nel momento della sua concreta applicazione. Questi casi non devono essere il pretesto per il giudice di affermare le proprie parziali e soggettive opzioni culturali ed ideologiche, compiendo così una scelta dirompente in una società culturalmente non omogenea come quella italiana.
Quanto poi alle consapevoli distorsioni della giustizia a fini di parte, mediante lo stravolgimento della stessa lettera delle legge e la strumentalizzazione del ruolo istituzionale del giudice per ragioni politiche (si pensi a taluni casi di abuso nell’utilizzo e nella divulgazione delle intercettazioni telefoniche o ai casi di sistematica violazione del segreto), si deve affermare con forza che esse esulano dall’idea stessa di giurisdizione e richiedono solo reazioni repressive (oggi non sempre adeguate), anche per evitare che il discredito così generato travolga i molti che lavorano con sacrificio, passione e reale indipendenza.
La necessità del recupero dell’idea di responsabilità riguarda non solo i magistrati, ma tutti gli operatori del diritto: l’azione di ciascuno – qualunque sia il ruolo rivestito – deve infatti essere funzionale alla risposta al bisogno di giustizia presente nel cuore di ogni uomo e che la società deve soddisfare.
Questo significa ad esempio che per l’avvocato l’interesse particolare che egli è chiamato a servire non può essere il criterio da affermare a qualunque costo e senza alcun limite, fino a giungere allo stravolgimento degli istituti processuali: è necessario recuperare l’idea dell’avvocato come “patrocinatore”, termine questo la cui radice è la parola pater, la quale evoca l’idea di una responsabilità verso la totalità dei fatti costitutivi del reale, sicché proprio tale totalità non deve essere persa di vista anche nella difesa dell’interesse particolare.
Ma il richiamo alla responsabilità di fronte al bisogno di giustizia riguarda anche coloro che hanno, nella struttura burocratica, responsabilità organizzative: spesso l’inefficienza della giustizia deriva infatti dalla mancanza di coraggio nell’adottare scelte che intacchino apparati burocratici e prassi organizzative finalizzate solo al mantenimento di strutture ormai prive di una reale utilità o comportanti costi sproporzionati rispetto ai risultati raggiunti.

3. La giustizia penale

La situazione della giustizia penale sembra caratterizzata da problemi talmente radicati e inestricabili, da far apparire velleitaria ogni proposta riformatrice, tanto che spesso ci si rifugia in generiche e scontate affermazioni di principio o ci si riduce alla formulazione di proposte specifiche che tuttavia eludono una presa di posizione sulle scelte culturali imposte da un’opzione realmente riformatrice.
Chi non è d’accordo ad esempio sulla necessità del “completamento della riforma dei codici” o di “completare la stagione di riforme 1996-2002 portando a compimento le misure già avviate sul processo civile e penale”, per stare ad alcune affermazioni che si leggono oggi nei programmi elettorali? Non si dice però quale forma si propone per questo completamento, visto che proprio le precedenti riforme sono state caratterizzate da continue e spesso contraddittorie oscillazioni tra diversi modelli di processo.
Proprio questa situazione dimostra che il vero nodo da sciogliere per affrontare in modo adeguato i problemi della giustizia penale è innanzitutto culturale: più che in ogni altro campo, si richiede infatti la consapevolezza che la soluzione di ogni problema impone il coraggio di una scelta tra esigenze spesso contrastanti, cioè il coraggio di una sintesi equilibrata, ma culturalmente consapevole.
Così ad esempio, quando si pone il problema della riduzione dei tempi della giustizia per l’attuazione del principio della ragionevole durata del processo, si deve riconoscere che ciò impone forme di esercizio della giurisdizione più snelle e pragmatiche (prevalenza data ai riti speciali, riduzione delle motivazioni delle sentenze, riduzione dei mezzi di impugnazione, adozione di meccanismi che favoriscano la prevalenza alle questioni sostanziali a scapito di eccezioni processuali meramente defatigatorie, ecc.). In particolare, non è possibile privilegiare la scelta di un modello processuale accusatorio e pretendere nel contempo – come si continua a fare – il mantenimento degli istituti tipici di un modello inquisitorio, perché il risultato di questa situazione ibrida è inevitabilmente l’attuale paralisi del processo penale.
E ancora, quando si parla di recupero della certezza della pena o della necessità di aumentarla per taluni delitti che destano particolare allarme sociale, si deve essere consapevoli che l’affermazione di queste esigenze si pone inevitabilmente in rotta di collisione con una serie di istituti genericamente definibili “clemenziali”, che di fatto contraddicono l’esigenza di certezza e di adeguatezza della reazione dello Stato a forme anche gravissime di criminalità. Si pensi, ad esempio, ai numerosi istituti sostanziali e processuali – dei quali è spesso prevista l’applicabilità cumulativa e non alternativa – che di fatto portano a rilevantissime riduzioni di pena, con inevitabile svilimento della risposta punitiva dello Stato rispetto al disvalore del reato commesso.
Si tratta però di istituti “clemenziali” che costituiscono la condizione indispensabile perché il sistema carcerario, nelle sua forma attuale (tutt’altro che soddisfacente) possa sopravvivere, sicché ancora una volta la declamazione di astratte affermazioni di principio (la certezza di una pena adeguata alla gravità del fatto), senza una realistica valutazione del loro impatto sull’organizzazione complessiva, rischia di risolversi nell’ennesima operazione ideologica di facciata, che finisce con il tradire, strumentalizzandola ad altri fini, proprio quell’esigenza di giustizia che, come si è detto, è il senso dell’istituzione giudiziaria.
Il richiamo alla concretezza appare decisivo nel campo della giustizia penale, anche perché in questi anni si è assistito troppe volte alla schematica trasformazione di astratti principi in norme, senza tenere conto delle dinamiche reali originate dalla loro applicazione. Così, ad esempio, invece che concentrare la persecuzione penale su fattispecie connotate da un marcato disvalore, proprio per astratte affermazioni di principio si è talora adottata la strategia di una persecuzione penale a tutto campo, con la conseguente paralisi e perdita di credibilità dell’intera amministrazione giudiziaria.
Ripartendo dalla giustizia come esigenza connaturata alla persona, è dunque necessario ritornare all’idea del diritto penale quale strumento indispensabile per la tutela di alcuni beni fondamentali dell’individuo e della società, in funzione della salvaguardia della pacifica convivenza: fermezza dello Stato nell’affermazione del diritto e quindi certezza della pena (realisticamente riservata, nel caso di pena detentiva, ai reati più gravi) sono le condizioni sulle quali è poi possibile inserire adeguati strumenti che favoriscano la risocializzazione di chi è stato condannato, e quindi il cambiamento della persona.
Questo cambiamento è ben possibile, perché sempre la libertà come adesione al bene può ridestarsi in un incontro con un’esperienza che fa emergere le esigenza di felicità, di bellezza e di giustizia costitutive del cuore di ognuno, qualunque reato abbia commesso, come testimoniano le esperienze di lavoro in carcere, che in questi anni hanno rappresentato nel nostro paese la concreta possibilità di una nuova vita per molti detenuti, pur nella drammaticità della condizione carceraria.

4. La giustizia civile

Nel campo della giustizia civile, negli ultimi anni vi è stata la parossistica corsa alla modifica e all’aggiunta di riti civili sperimentali, con l’esplicito intento di trovare il modo per ridurre la durata dei processi e aumentare l’efficienza del servizio giustizia.
Il risultato che è sotto gli occhi di tutti non è esaltante: un’enorme molteplicità di riti determina spesso perdite di tempo e di energie, senza parlare dell’estrema facilità dell’errore nella scelta del rito, cosicché, di fatto, è altissima la percentuale di processi in cui la maggior parte delle energie viene spesa per “litigare su come litigare”.
Proprio per non tradire anche in questo campo l’esigenza di giustizia, è necessario ribadire che il processo ha la funzione di indicare la modalità con cui si esprime la domanda di giustizia e quindi deve rimanere sussidiario alla sostanza delle controversie da esaminare, facilitando l’impostazione dei problemi sostanziali, non aggiungendo inutili problemi che con questi hanno ben poco a che fare.
Anche in questa materia si deve dunque scegliere e la scelta più opportuna appare quella di individuare un unico rito civile. Il modello da adottare può essere ad esempio quello ordinario attuale (recentemente riformato), che garantisce una sufficiente elasticità di adattamento alle diverse tipologie ed alla diversa importanza delle controversie, con previsione della competenza collegiale di alcune categorie di cause e fatta salva la possibilità di rafforzare il modello con un uso adeguato dello strumento delle preclusioni. Ma la scelta può cadere anche sul rito del lavoro (introdotto già dal 1973) che presenta caratteristiche efficaci di oralità, celerità ed immediatezza, e “costringe” le parti a dire “tutto e subito” fin dagli atti introduttivi, consentendo al giudice di interrogare alla prima udienza le parti con cognizione di causa e di tentare efficacemente la conciliazione: si tratta di un modello già collaudato che scoraggia manovre dilatorie delle parti e degli avvocati e inutili incrementi di tempi e di costi.
Una scelta semplificatoria nei termini indicati non potrà non riverberarsi positivamente sui tempi della giustizia civile, che spesso appaiono, ora, così dilatati da vanificare l’idea del rendere giustizia nel caso concreto.
A fronte della crescente complessità del contenzioso e della disciplina applicabile, rimane poi il problema della specializzazione del giudice, spesso censurato a priori da scelte di principio forse troppo rigide o, più banalmente, da preoccupazioni corporative. La tensione al giusto suggerisce, invece, di ripensare la questione: salvaguardando un’adeguata conoscenza da parte del giudicante della materia che è chiamato a decidere, con tutte le cautele necessarie a evitare cristallizzazioni o posizioni di potere.

5. Ripartire dall’essenziale

Nel settore della giustizia nessuno possiede ricette magiche preconfezionate che garantiscano la soluzione di tutti i problemi, ma è proprio perché la crisi del sistema giudiziario è oggi così grave e diffusa che si deve ripartire dall’essenziale, affermando con forza che lo scopo della giustizia – lo si è spesso dimenticato – consiste nell’affermazione del bene e quindi del giusto, uno scopo al quale è funzionale – pur nella diversità dei ruoli – l’attività di ogni operatore del diritto e di ogni struttura organizzativa.
Senza il riconoscimento della senso di giustizia e della necessaria tensione ad attuarlo, pur con l’inevitabile approssimazione e fallibilità insita in ogni strumento umano, una società è destinata ad autodistruggersi, perché elimina una dimensione essenziale di ogni persona.

(Foto: Imagoeconomica)