Come accade ormai con una certa regolarità da alcuni anni, il Parlamento europeo è intervenuto in tema di diritti fondamentali e questa volta lo ha fatto con una risoluzione del 14 gennaio 2009. Per molti aspetti si tratta di un documento che riprende temi cari alle istituzioni europee, da anni impegnate sul terreno dei diritti, o meglio impegnate a promuovere alcuni tra i “nuovi diritti” che hanno guadagnato la priorità nelle agende europee: le maggiori preoccupazioni dell’Unione si rivolgono infatti ai diritti nati sul tronco del principio di non discriminazione e su quello dell’autodeterminazione dell’individuo.
Le espressioni più chiare di questa tendenza sono le direttive antidiscriminazione del 2000 e la nuova proposta di direttiva del Consiglio che intende estendere ulteriormente l’applicazione del principio di non discriminazione anche ad ambiti come scuola e ospedali, non senza alcune ambiguità acutamente individuate da alcuni emendamenti dell’on Mauro. Parlare di diritti in Europa spesso significa parlare di lotta al razzismo e all’“omofobia”, nonché di diritti riproduttivi e di autodeterminazione nelle cure, specie al tramonto della vita. I riflettori sono spesso puntati su questi temi. Fin qui nulla di nuovo.
Non mancano però nell’ultimo documento del Parlamento europeo alcuni accenti inediti, che meritano qualche considerazione. Sono accenti di sospetto, sia nei confronti degli Stati membri, sia nei confronti delle formazioni sociali, finora mai esplicitati in documenti ufficiali.
Anzitutto la risoluzione “deplora che gli Stati membri continuino a sottrarsi ad un controllo comunitario delle proprie politiche e pratiche in materia di diritti dell’uomo e cerchino di limitare la protezione di tali diritti ad un quadro puramente interno”. È sorprendente che un’istituzione europea consideri come deplorevole un fatto assolutamente fisiologico per la struttura istituzionale e costituzionale su cui si basa l’Unione. L’Unione europea non è uno stato nazionale e nemmeno uno stato federale, perciò la tutela dei diritti fondamentali da parte degli organi europei non è destinata a sostituirsi alla ben più radicata tutela garantita dalle Costituzioni nazionali. Preoccupazione dell’Unione dovrebbe essere la cura dei cittadini nei confronti delle istituzioni europee; al resto continuano a provvedere gli Stati con le loro Costituzioni, come hanno sempre fatto, dal secondo dopoguerra in poi. Perché gli Stati non dovrebbero più occuparsi di diritto alla salute, di famiglia, di previdenza sociale, ad esempio? C’è una precisa divisione di compiti nella tutela dei diritti, scritta a chiare lettere anche nell’articolo 51 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che vuole preservare il ruolo degli Stati nella tutela dei diritti. E allora come può essere “deplorevole” ciò che l’Unione ha posto come principio costituzionale del proprio ordinamento?
La seconda novità che compare nella risoluzione è la preoccupazione per il rispetto dei diritti nelle “istituzioni chiuse”. Il Parlamento “sottolinea che gli Stati membri e l’Unione europea dovrebbero garantire una vigilanza qualificata, in termini sia di norme che di prassi, sulle condizioni di vita in dette istituzioni chiuse”. Di che cosa si tratti esattamente quando si parla di “istituzioni chiuse” non è dato sapere con certezza. Non è però difficile immaginare che le cosiddette “istituzioni chiuse” sono i luoghi dove si svolge la vita sociale della gente: scuole, ospedali, luoghi di lavoro, associazioni, chiese, famiglia, etc. L’uomo è relazione, perciò la sua vita si svolge nelle istituzioni sociali. La nostra Costituzione parlerebbe piuttosto di formazioni sociali o di corpi intermedi.
È interessante il capovolgimento di prospettiva: per la Costituzione italiana le formazioni sociali sono i luoghi dove si svolge e fiorisce la personalità dell’individuo; per il Parlamento europeo si tratta di istituzioni chiuse su cui vigilare con particolare attenzione. Espressioni di ricchezza della vita sociale per l’una, luoghi chiusi, oscuri e sospetti per l’altro. Ebbene, la nuova frontiera della tutela dei diritti nell’Unione europea è la garanzia dell’individuo contro le istituzioni e le formazioni sociali dove vive. Qui emerge tutta la differenza culturale tra la concezione antropologica sottesa ad un testo come la Costituzione italiana e l’individualismo di cui si nutre la tutela dei diritti in Europa.
Quelli che Tocqueville denominava “vivai delle virtù civiche” sono ribattezzati come “istituzioni chiuse”. E la nuova etichetta porta con sé un significativo giudizio di valore. C’è da chiedersi dove sia finita l’Europa della sussidiarietà. Ma c’è da chiedersi, soprattutto, se lo zelo per alcuni cosiddetti nuovi diritti non stia tracimando in un’azione politica che tende a soffocare o addirittura a compromettere gli spazi di libertà. Come se potesse davvero fiorire una società dei diritti umani senza il gusto per le libertà sociali.