Non so se vi è mai capitato di passeggiare per le strade di Mosca e di Leningrado ai tempi dell’URSS. Tra le varie impressioni che ho provato, una in particolare mi aveva colpito: non vedevo da nessuna parte, in nessun luogo di ritrovo, teatro o altro, persone che oggi chiamiamo disabili.
Una volta, uscendo dal comprensibile riserbo con cui ci si muoveva da quelle parti in quei tempi, provai a chiedere perché. Certo, non potevo pensare che nel paradiso del socialismo reale fossero stati soppressi, applicando quel metodo che si chiama “eutanasia” (eugenetica), quello che aveva usato Hitler per ripulire la razzia ariana da alcune inevitabili imperfezioni.
Eppure, per quanto mi sforzassi di aguzzare lo sguardo, non riuscivo a vedere un solo ragazzo affetto da sindrome di Down o da altre disfunzioni (non so se si dice così). Mi fu spiegato che da quelle parti l’aborto era già usato da tempo come “prevenzione”. Per quelli poi che si ostinavano a venire al mondo con qualche “anomalia” c’erano istituti speciali, dove sin da piccoli c’era chi si occupava di queste creature, non facendo mai mancare loro ciò che era necessario. Per la verità confesso di non aver mai visitato questi luoghi fino a che non vi fu ricoverata (a fine anni 90) una mia studentessa. E trovai che quei posti non erano “ideali” per nessun essere umano.
Anche per quanto riguarda le persone omosessuali, non ricordo di aver visto mai nessuno ostentare la sua scelta di vita. Mi dissero, però, che la loro condizioni era comunque tollerata, non come nella Cuba rivoluzionaria di Fidel Castro, dove se uno era scoperto essere omosessuale era inviato in ospedali speciali a curarsi da quella sua “malattia”. Mi sono sempre immaginato in proposito che queste persone, sottolineo persone, fossero affidate alle mani di procaci infermieri mulatte, che anche oggi pare non scarseggino a Cuba.
Ora in Italia, Paese nel quale da tempo si sta cercando di inserire nella società persone disabili che una volta erano lasciate in istituti dove centinaia di religiosi e religiose, forse non tutti forniti delle qualità fisiche delle cubane, si preoccupavano di gente che altrimenti sarebbe stata abbandonata al suo destino, sta scoppiando un caso. Dicono, ma non si sa se è proprio vero, che un candidato alle europee avrebbe proposto di concentrare i cosiddetti disabili in alcune classi speciali. Naturalmente per il loro bene, oltre a quello degli “abili”, magari abili al servizio militare che parallelamente qualcuno vorrebbe ripristinare.
Certo, a vedere la fatica che spesso si fa nell’inserimento di questi ragazzi e ragazze nelle scuole, anche per un eccesso a volte di aspettative di miracolosi risultati, c’è da ammettere che gli “esclusivisti” (nuovo termine inventato da me) qualche ragione ce l’abbiano. Personalmente, però, mi viene in mente subito un esempio che ho visto proprio nella vituperata ex Unione Sovietica, per di più in quella Karaganda, in Kazakistan, che è stata la capitale delle deportazioni dei tempi di Stalin. Lì un gruppo di persone, molte convertite da poco tempo, di diversa fede religiosa, aiutate ora da alcune coraggiose suore del Cottolengo, hanno dato vita ad un’opera che hanno chiamato Majak (il faro) che sta destando l’entusiasmo in molte famiglie di ragazzi “speciali” (così li chiamano) su cui una volta non avevano speranze.
Per carità, non parliamo di miracoli tipo Lourdes. Si tratta di un altro tipo di miracolo, con tutto il rispetto dovuto a quelli di Lourdes e di altre parti. A Majak ragazzi e ragazze, coinvolti con le loro famiglie in una serie di attività genialmente organizzate, incominciano a cambiare, a vivere una vita lieta che inizia a contagiare non solo i loro genitori, ma anche il resto della città. Fino al punto che, ricordo, dopo una bellissima festa, una mamma di un ragazzino “non speciale” arrivò a chiedere: “Posso inserire nel gruppo Majak anche mio figlio, anche se non è speciale? È solo, è sempre triste, dopo la scuola è in compagnia solamente del suo computer e lì cerca un’amicizia che nella vita reale non trova”.
Mah, roba da matti. Volevo dire, scusate, da persone “diversamente intelligenti”.
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