Quasi 8 milioni di persone si sono dovute spostare dalla loro casa. Cercano rifugio dalla guerra che si combatte tra le forze che fanno capo al presidente provvisorio Abdel Fattah Al Burhan e quelle di Mohamed Hamdan Dagalo, leader delle Forze di supporto rapido, eredi delle famigerate milizie dei Janjaweed. Sono loro che dalla metà di aprile del 2023 stanno mettendo a ferro e fuoco il Sudan, compresa la capitale Karthoum, provocando una crisi umanitaria devastante sulla quale il mondo ha chiuso gli occhi, impegnato com’è a dividersi sui conflitti in Medio Oriente e in Ucraina.
Una vicenda che, spiega Mussie Zerai, sacerdote eritreo che ha vissuto in Italia occupandosi di migranti e di rifugiati dell’Africa sub sahariana, in particolare quelli del Corno d’Africa, non è tutta interna al Paese, perché qui come nel resto del continente, le influenze e gli interessi stranieri si fanno sentire, arrivando a contare molto di più delle esigenze della popolazione. Così, di fronte a una comunità internazionale sorda alla situazione e incapace di agire a causa della polarizzazione della situazione politica globale, resta il disumano “spettacolo” di milioni di persone sfollate che rischiano di morire di fame. Al quale assiste impotente anche l’Unione Africana. Tutto il Corno d’Africa rischia di infiammarsi, mentre dall’altra parte del Mar Rosso gli Houthi continuano a imperversare, promettendo solo alle navi russe e cinesi di transitare in sicurezza.
L’Onu parla di oltre 7,7 milioni di persone sfollate, 6 milioni rimasti in Sudan e il resto finite nei Paesi confinanti. Come ha cambiato la guerra il modo di vivere della popolazione?
È un disastro annunciato, i due generali che si combattono non hanno risparmiato neanche la capitale, hanno devastato tutto. Il Paese, poi, è quello che è, non è fertile, la gente non può rifugiarsi nelle campagne per trovare cibo. Tralasciando le zone vicino al Nilo è semideserto. In più le cavallette hanno divorato tutto quello che cresceva: la guerra, la carestia, la siccità, stanno provocando una crisi umanitaria immensa. Nessuno ne parla perché il mondo è catalizzato dalle guerre in Palestina e in Ucraina.
Dove si sono rifugiate le persone che hanno dovuto lasciare le loro case?
Sono sfollati interni: alcuni si sono avvicinati all’Etiopia, altri sono andati verso l’Egitto. Ma anche il viaggio costa, molte famiglie con i bambini sono uscite da Karthoum accampandosi come possono nei villaggi. La gente è sul lastrico, ridotta alla fame. Fame vera.
Ci sono stati dei colloqui in Arabia Saudita fra le parti, però non hanno portato a niente: siamo ancora alla contrapposizione netta che ha portato allo scontro armato iniziato in primavera?
Non conta più solo la sete di potere dei due contendenti, sono subentrati anche gli interessi di attori regionali e internazionali. La Russia, che sta con Dagalo, controlla le miniere di oro e altre risorse naturali, mentre dall’altra parte, anche se si sono proposti come mediatori e non dicono apertamente chi sostengono, ci sono i sauditi. E l’Egitto, interessato soprattutto alla gestione del Nilo, usa il Sudan in chiave anti-etiope.
La possibilità di raggiungere un accordo resta molto remota?
Al Burhan e Dagalo devono scrollarsi di dosso tutti questi interessi esterni e ragionare solo mettendo al centro il bene della popolazione, non possono più pensare solo al loro potere personale. Altrimenti non ne usciranno. L’uno e l’altro sono indebitati con i Paesi che li appoggiano, volenti o nolenti devono garantire questi interessi.
La crisi del Sudan è molto grave ma l’instabilità regna sovrana un po’ in tutto il Corno d’Africa; qual è la situazione in questa area e quanto è serio il rischio di un suo peggioramento?
Se la crisi non si risolve, a lungo andare avrà un influsso negativo sull’Eritrea, sull’Etiopia, sul Sud Sudan. Anche sull’Egitto. E non solo perché devono accogliere i profughi. Quando il confine con l’Etiopia è chiuso, ad esempio, le merci per l’Eritrea arrivano dal Sudan: la guerra sta ostacolando questo flusso, interrompendo un rapporto commerciale forte, che ormai è ridotto al lumicino. C’era un gruppo consistente di eritrei che vivevano in Sudan, ora si sono sparpagliati: c’è chi è tornato in patria, chi si è rifugiato in Etiopia, chi è rimasto bloccato nei campi profughi allestiti alla bell’e meglio al confine con l’Etiopia, dove si vive in condizioni disumane.
La comunità internazionale può fare qualcosa per risolvere il conflitto?
La comunità internazionale è paralizzata, divisa all’interno. C’è il Darfour che viene massacrato dalle forze di Dagalo e non si sta facendo quasi niente. Gli stessi che sono lì per far valere i loro interessi, sostenendo l’uno o l’altro dei contendenti, si siedono poi nel Consiglio di sicurezza dell’ONU. Qual è la comunità internazionale che può fare da terzo? Il segretario delle Nazioni Unite Guterres da solo non può fare nulla.
Ci sono anche interessi americani e cinesi?
Americani sicuramente, ma anche i cinesi non sono assenti. Forse loro potrebbero fare qualcosa ma non si muovono gran che. Continuano ad aspettare, ma non so che cosa.
Sull’altra riva del Mar Rosso gli Houthi attaccano le navi mercantili, su quella opposta il Sudan vive una crisi devastante e anche gli altri Paesi danno segni di insofferenza. Che cosa sta succedendo?
Nello Yemen di fatto si sta combattendo. E dall’altra parte non va meglio. C’è il rischio che la guerra divampi ancora di più, basta pensare alla tensione che si è creata fra l’Etiopia e la Somalia sulla questione del Somaliland. Una questione non del tutto risolta. In questo contesto potrebbe avere un ruolo l’Unione Africana: hanno fatto tanta propaganda all’insegna dello slogan “problemi africani, soluzioni africane” e allora si muovano a trovare soluzioni facendo dialogare i vari Paesi. Anche la questione sudanese poteva rimanere dentro il continente tenendo fuori tutti gli attori esterni, non ne sono stati capaci. Intanto la povera gente sta pagando un prezzo altissimo: il Sudan è devastato.
(Paolo Rossetti)
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