Numeri da paese in stato di guerra, quelli che durante il suo discorso al Senato ha sciorinato il presidente del Consiglio Mario Draghi: “92.522 morti in un anno, aspettativa di vita, a causa della pandemia, diminuita fino a 4-5 anni nelle zone di maggior contagio, un anno e mezzo – due in meno per tutta la popolazione italiana”. Un calo che non si registrava in Italia dai tempi delle due guerre mondiali. E ancora: “l’incidenza dei nuovi poveri passa dal 31% al 45%; gravi e con pochi precedenti storici gli effetti sulla diseguaglianza”. Dati, questi, che non sono stati presi da qualcuno dei tanti istituti di studio o dal Governo, ma, come ha detto lo stesso Draghi, “dati dei centri di ascolto Caritas”. È probabilmente la prima volta nella storia che un capo di Governo si affida alla Caritas per denunciare lo stato della nazione: “Sono dati che non sono venuti fuori da un alfabeto statistico” ci ha detto in questa intervista don Virgilio Colmegna, già presidente della Caritas ambrosiana e attualmente presidente della Casa della carità “Angelo Abriani”, “ma da una esperienza reale sul territorio di gente che vive l’ascolto, le dinamiche, la drammaticità della situazione attuale. Sono anche molto contento che abbia parlato di ristrutturazione in termini territoriali della sanità”.
Che ne pensa delle parole del presidente Draghi? Ha usato i dati della Caritas per denunciare la nuova povertà in atto, qualcosa a cui lei si dedica da sempre.
Il presidente Draghi ha citato anche le case comunità come le nostre, sono dati reali di chi ha cuore la dignità della persona, quella fraternità di cui il magistero di papa Francesco è esempio continuo. Questo è estremamente importante. Che un presidente del Consiglio citi quei dati, dia loro validità, vuol dire trasferirli a un bisogno politico che non è della Caritas ma della cittadinanza tutta di cui la Caritas è parte.
Cosa si aspetta in termini di lotta alla povertà da parte del Governo e a cosa dare priorità?
Ci vorrebbe un asse strategico nel programma di governo, in modo che le scelte affrontino il tema della diseguaglianza economica. Il virus non è democratico, attacca tutti, in questo modo aumentando le diseguaglianze. È decisivo ridistribuire la solidarietà che non è quella corporativa, quella dei propri interessi, ma la solidarietà ridistributiva.
Cioè?
Quella che dice: devi pagare qualcosa di persona perché a pagare non siano solo i poveri. Ritengo sia un orizzonte come priorità.
Che altro dovrebbe fare questo Governo?
Ritengo come priorità anche sanità e salute, e sono stato molto contento che il presidente Draghi abbia richiamato all’obbligo una volta sconfitta la pandemia di occuparsene, ha parlato di case della comunità, di territorio, di uso degli ospedali solo per i momenti acuti e più gravi. È quel patrimonio che noi stiamo da tempo cercando di portare avanti, penso all’associazione da noi fondata, Prima la Comunità, che si occupa di promuovere l’idea di salute intesa come bene comune. Diffondere cioè la cultura della domiciliarità, un welfare di comunità e generativo.
La scomparsa della medicina territoriale è stata infatti il grave problema di questa pandemia, è questo che state cercando di ricreare?
Esatto, connettere soggetti differenti impegnati nel campo dell’assistenza, della sanità, della cura, della riabilitazione, della promozione umana, dell’integrazione. Dare prevalenza alla territorialità.
Come rispondere senza sprechi e con più razionalità possibile all’emergenza che stiamo vivendo?
Nel Vangelo ambrosiano in questi giorni c’era la parabola della vedova povera e dei ricchi, dove la vedova dava tutto quello che aveva e loro solo spiccioli. Questo è il senso: cambiare davvero la coscienza sociale dei processi di solidarietà ridistributiva, creare giustizia sociale perché la carità senza giustizia, diceva don Milani, è una truffa. Gli sprechi nascono anche dal fatto che le persone non hanno dentro quella che si chiama conversione ecologica, come dice papa Francesco.
È questa la sfida di ognuno di noi?
Assolutamente sì, rompere l’individualismo significa entrare nella cultura della prossimità. Infatti è possibile se il vicino di casa diventa prossimo e non un estraneo.
(Paolo Vites)
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