Chi si attendeva una rampogna ai partiti, magari sul tema scottante del premierato, sarà certo rimasto deluso. La cifra di Sergio Mattarella è lontana anni luce da quella di alcuni dei suoi predecessori (Scalfaro, ma anche Cossiga e Napolitano) che avevano fatto del discorso di fine anno un’occasione di severi richiami al mondo politico e di difesa delle proprie scelte.



Sergio Mattarella è diverso: per lui il messaggio è il momento di dialogo diretto con il Paese. E in questo senso, anche quest’anno non ha deluso le aspettative. Un discorso preoccupato, ma non pessimista. Il senso complessivo dei suoi 17 minuti sta nella frase finale: “Uniti siamo forti”. Ci sono pericoli, problemi, sfide, ma il Paese, Mattarella ne è convinto, li può affrontare con le non poche risorse di cui è dotato. Certo, c’è molto da fare. Ai cittadini ha rivolto un richiamo dal sapore quasi kennediano: “Possiamo dare tutti qualcosa alla nostra Italia”. Ingredienti: solidarietà, partecipazione alla vita civile (anzitutto con la partecipazione al voto) pagamento delle tasse, rifiuto di ogni forma violenza, con un passaggio accorato rivolto ai giovani sulle donne: l’amore vero è dono, è gratuità, non dominio, o, peggio, malinteso senso dell’orgoglio.



Doveri assieme ai diritti, insomma. Un richiamo che certo vale anche per la politica, per la maggioranza, come per l’opposizione. Perché c’è davvero tanto da fare: il lavoro che deve essere dignitoso e al riparo dagli incidenti, le cure sanitarie che non possono vedere liste di attesa lunghe in modo inaccettabile, gli alloggi per gli universitari che hanno raggiunto prezzi insopportabili, l’intelligenza artificiale da governare.

Alla società nel suo insieme, e quindi anche alla politica, Mattarella ha chiesto di sapere ascoltare chi sta ai margini, con un esplicito riferimento alla “cultura dello scarto” tanto deprecata da Papa Francesco. I fragili, gli anziani, i migranti. Ce n’è più che a sufficienza per un programma di governo, con l’accompagno del metodo del perseguimento del bene comune, al di là delle legittime differenze fra le tante posizioni. Mattarella ha scandito, ancora una volta, che contribuire alla vita sociale non può che suscitare orgoglio. Che bisogna cercare quel che unisce prima di quello che divide.



Per il Capo dello Stato i segni di speranza sono numerosi, il mondo del volontariato e non solo. Nell’elenco delle realtà che nel corso del 2023 ha incontrato Mattarella ha voluto inserire la compassione della gente di Cutro, i ragazzi che cantavano “Romagna mia” spalando il fango dell’alluvione, i visionari che con Pizzaut hanno dato un lavoro ai ragazzi autistici, chi coltiva la legalità a Casal di Principe nel ricordo attivo di don Peppe Diana, chi assiste i detenuti, la fatica quotidiana delle forze dell’ordine. Storie, ha specificato, che raccontano già il nostro futuro.

Il metodo dell’ascolto e dell’incontro tanto caro a Mattarella per le cose di casa nostra è lo stesso che secondo il presidente della Repubblica servirebbe per fermare le guerre in atto. Volere la pace non è astratto buonismo, ma serve la volontà dei governi, in primo luogo di quelli che hanno scatenato le guerre. Non si tratta di essere neutrali, o indifferenti, significa respingere la logica perversa della competizione fra i popoli e le nazioni. Significa far prevalere le ragioni del vivere insieme.

È un’impresa difficile, Mattarella ne è perfettamente consapevole, ma non ci si può rassegnare a considerarla impossibile. Questione di volontà, e di saper riconoscere le ragioni dell’altro. Nell’anno in cui l’Italia avrà la presidenza di turno del G7 si tratta di una traccia di lavoro estremamente impegnativa.

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