Nel Regno Unito è stato appena pubblicato un lungo ed approfondito rapporto sulla disforia gender, redatto dalla dottoressa Hilary Cass che ha cercato di indagare sull’aumento esponenziale di bambini e ragazzi che sostengono di voler cambiare il loro sesso biologico, aumentati di circa cento volte nell’arco di appena 15 anni. Un rapporto con il quale non si vogliono sollevare critiche o polveroni, quanto piuttosto indagare sulla sempre più utilizzata teoria affermativa, che tende a seguire la disforia gender lamentata dal paziente, senza indagare accuratamente la sua condizione psicologica.
Il ragionamento parte proprio dall’aumento dei casi di bambini e (soprattutto) bambine disforiche, inserendo nell’equazione anche la condizione sociale in cui la Generazione Z si trova a crescere. La dottoressa punta il dito contro l’eccessivo “consumo di pornografia”, talvolta “violenta” e che impatterebbe sulla salute mentale dei giovani, compromettendone l’autostima e la percezione di se stessi. È importante, in questo contesto, “avere una certa comprensione delle loro esperienze e influenze” ipotizzando che nella disforia gender potrebbero influire anche le “preoccupazioni per il cambiamento climatico e per la pandemia” ma anche le più recenti “minacce globali”. L’aumento dei bambini trans, in altre parole, va “considerato nel contesto di scarsa salute mentale e disagio emotivo tra la popolazione adolescente”, citando anche gli studi che attestano come tra le persone transgender si rilevino probabilità tra le tre e le sei volte superiori di rientrare nello spettro autistico.
Il rapporto: “Troppe lacune sui trattamenti per la disforia gender”
Proprio a causa delle compromessa salute mentale dei giovani, secondo la dottoressa Cass, andrebbe ripensato il trattamento “olistico” che mira ad affermare l’identità gender dei bambini che dicono di sperimentare la disforia. Il metodo affermativo, infatti, è “del tutto inadeguato” mentre nella realtà “non abbiamo alcuna buona prova sui risultati a lungo termine degli interventi per gestire il disagio legato al genere”; così come le linee guida del Wpath e dalla Endocrine Society sul trattamento della disforia gender “mancano di rigore e trasparenza”.
Collegato al metodo affermativo anche l’uso dei cosiddetti bloccanti della pubertà, farmaci che secondo i medici pro-trans aiutano i giovani a prendersi il tempo necessario per ‘decidere’ il proprio sviluppo ormonale, interrompendo la pubertà per poi riprenderla grazie agli ormoni specifici per l’uno o l’altro genere. I bloccanti e il loro uso, secondo Cass, presenta diverse “preoccupazioni”, soprattutto perché non sono sufficientemente studiate le “conseguenze non intenzionali” del farmaco, che potrebbero includere danni alla maturazione del cervello, ma anche un impatto sulla capacità di “prendere decisioni complesse e cariche di rischio”, come quella di sottoporsi alla transizione.
Nel rapporto, inoltre, si critica la ‘transizione sociale‘ con la quale (in assenza di un trattamento chirurgico) i bambini con presunta disforia gender vengono chiamati con il nome e i pronomi che si scelgono. Una consuetudine tipica del metodo affermativo ma che, secondo Cass, non ha “nessuna prova chiara” a supporto della sua influenza positiva o negativa, ma che sembra essere legata anche ad una “maggiore probabilità [per i bambini] di procedere al trattamento medico“.
I consigli della dottoressa Cass sulla disforia: “Screening, consulenze e followup”
Il rapporto si conclude con una serie di indicazioni rivolte al Sistema Sanitario britannico per trattare correttamente i bambini e i ragazzi trans. Si va da un maggiore controllo sulle cliniche gender private, che in molti casi trattano la disforia senza le dovute precauzioni psicologiche, invitando la società ad un “dibattito aperto e costruttivo” che non ignori “compassione e rispetto” nei confronti dei pazienti e dei medici che li trattano.
In tal senso si invita il SSN ad indagare gli effetti a lungo termine dei bloccanti puberali, includendo poi nelle valutazioni psichiatriche pre-trattamento per la disforia anche screening per le condizioni neuropsichiatriche, con la raccomandazione di dare il via libera alle terapie solo per chi dimostra una “incongruenza nel gender di lunga data”. Ancora, i trattamenti dovrebbero essere limitati a chi ha più di 16 anni, fornendo anche un’ampia consulenza sulla fertilità post-trattamento e supporto psichiatrico dai 17 ai 25 anni al fine di garantire cure e interventi soprattutto a coloro che si ‘pentono’ della scelta.