La giornalista Maria Sorbi sulle pagine del Giornale ha pubblicato una riflessione attorno al tema (politicizzato ed ideologizzato) della disforia di genere, ovvero la ‘patologia’ di cui soffrono adulti e ragazzi che non si riconoscono nel loro sesso biologico, partendo perché dal precisare che “prima ancora che una questione politica, il tema è una questione medica“. Partendo da questo presupposto, infatti, appare evidente che “i punti critici da chiarire” sulla disforia e, in particolare, sugli interventi per cambiare genere, “sono talmente tanti che è quasi prematuro chiedersi se sia etico o no far cambiare sesso ai nostri adolescenti”.



La popolazione Lgbt “e la cultura woke” del gender “ne hanno fatto una questione di diritti, di libertà”, con l’unico effetto (secondo Sobri) di aver resto “tanti ragazzini più confusi e insicuri di quel che sono, in un’età in cui è già difficile capire cosa si desidera”. Così, il tema della disforia, “tra bandiere e slogan”, è diventato “sociale e ideologico“, portando ad un amento delle persone che non si riconoscono nel loro genere di quattro volte, “il 367% in più rispetto all’anno precedente”. Ma l’ideologia, accusa la giornalista, sembra ignorare “il disagio reale” dietro a queste pratiche, con solamente “5 centri specializzati” in tutta Italia nei quali viene sempre meno il necessario “supporto psicologico” per capire se il cambio (anche chirurgico) del proprio genere è motivato “da una disforia sessuale o fa parte di un quadro di insicurezze più esteso”.



Il modello americano per la disforia di genere: “Consenso informato senza parere psichiatrico”

E parlando di cliniche non si può evitare il discorso sui bloccanti della pubertà, effettivamente autorizzati dall’Aifa, ma con la clausola che “non esistono studio di sicurezza e dati di follow up in grado di dare rassicurazione sulla mancanza di effetti collaterali”. Nonostante questo, a chi si suppone avere la disforia di genere “il protocollo prevede 3,75 mg di triptorelina ogni 28 giorni fino ai 16 anni”, indicando il già citato “percorso psicologico” con una durata di “sei mesi” come condizione portante per iniziare la terapia. Il caso del Careggi (in Italia, ma all’estero ce ne sono molti altri simili) dimostra proprio la mancanza di quel supporto.



Gli stessi psicologi, riporta ancora Sorbi, iniziano a dubitare del “modello della diagnosi di disforia di genere”, optando sempre più facilmente per l’uso dei bloccanti: è il temuto “modello del consenso informato applicato negli Stati Uniti. Niente psichiatra, solo un modulo scritto fitto fitto per informare sulle conseguenze”. Un rischio doppio, perché da un lato “ci sarebbero le visite specialistiche con l’endocrinologo”, ma solamente “a discrezione del medico” curante; mentre dall’altro lato “gli psichiatri temono che le persone interessate alla transizione, pur di accedere alle certificazioni siano indotte a non riferire questioni di salute rilevanti“.