A maggio 2024 gli occupati in Italia sono in lieve diminuzione: -0,1% rispetto ad aprile. Lo comunica Istat nella diffusione mensile dei dati sulla rilevazione delle forza lavoro. La lieve diminuzione non comporta una crescita dei disoccupati, stabili poco sopra il milione e 750 mila unità, ma un travaso dal lavoro verso l’inattività di circa 17.000 unità. Ne consegue che i tassi di occupazione calano di 0,1 punti, restando comunque al 62,2%; la disoccupazione resta stabile al 6,8%.



Insomma, non un mese di grandi cambiamenti. Se si guardano i grandi aggregati, si tratta di un aggiustamento del mercato dopo la crescita consecutiva dei tre mesi precedenti. Sotto il cofano dei grandi aggregati continuano invece a muoversi due fenomeni di fondo che caratterizzano veramente questa fase del mercato.

Il primo è il consolidamento dell’occupazione permanente o se si preferisce dei contratti a tempo indeterminato, in crescita di 29 mila unità rispetto al mese precedente, e con equivalente erosione dei contratti a termine (-3mila) e degli indipendenti, che perdendo 42mila unità fanno segnare un -0,8% mensile. Le aziende sono ancora a caccia di personale che attraggono e stabilizzano attraverso processi di ricerca multicanale; ormai i dipendenti stabili sono quasi 16 milioni, pari al 84,7% dei dipendenti e al 66,7% dei quasi 24 milioni di occupati totali. Forse a interrompere questo ciclo virtuoso interverrà il referendum contro il Jobs Act.



Nel confronto annuale con il mese di maggio 2023, l’occupazione cresce tra i dipendenti permanenti (+3,2%) e gli autonomi (+0,8%), mentre diminuisce tra i dipendenti a termine (-2,6%).

La seconda tendenza di fondo riguarda l’evoluzione della componente demografica. Rispetto all’anno scorso gli occupati tra i 15 e i 64 anni sono aumentati dell’1,7%, ma con una crescita osservata dello 0,8% per gli under 35 e del 2,5% per gli over 50. Tuttavia, al netto della componente demografica, l’occupazione cresce di più nella fascia centrale fra i 35 e i 49 anni. L’occupazione al netto della componente demografica per i giovani cresce solo dello 0,3%; in questa classe di età crescono gli inattivi dell’1,3%, mentre calano nel complesso e in tutte le altre classi di età.



Brutto segnale: l’incapacità di sistema di facilitare il passaggio scuola-lavoro resta elevata, nonostante programmi come Garanzia Giovani abbiano raggiunto il decennio di vita. Le politiche del lavoro individualizzate (non personalizzate, ma standardizzate) riescono a facilitare giovani che hanno medie difficoltà di accesso, ma lasciano i problemi di transizione invariati per quelli che hanno veramente bisogno di personalizzazione. Un vero peccato perché la spesa per le politiche del lavoro comincia a raggiungere livelli alti rispetto al passato, ma non trae nessun giovamento dalla valutazione dell’efficacia di collocamento.

Se una politica non colloca nelle fasce più bisognose, se non colma i divari fra genere e regioni, va riscritta, non standardizzata, va riequilibrata, non schiacciata attraverso la determinazione dei livelli essenziali di prestazione o LEP.

Il regionalismo che si basa sui LEP punta a determinare dei minimi, che nella prassi delle politiche del lavoro diventano il massimo che si somministra oppure l’unico servizio che il dirigente pubblico fornisce per passare la valutazione annuale. I LEP vanno forse bene per dividersi le risorse, ma sono disastrosi quando diventano un catalogo di prestazioni, perché rendono la valutazione dell’efficacia inutile: ti ho dato i LEP, che cosa vuoi di più? Il di più, spesso non detto, della politica del lavoro italiana si chiama sussidio, esplicito oppure nascosto nelle tariffe, nella tassazione, nella redistribuzione dei redditi, con buona pace del regionalismo LEPpista.

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