Finita la pausa estiva si torna al lavoro, o a cercare un lavoro se non ce l’hai e ti serve. Lo confermano i dati di Istat relativi a settembre 2023, provvisori, pubblicati ieri. Aumentano sia gli occupati (+42mila) che i disoccupati (+35mila). Dato che si va a lavorare di più, o che si cerca di lavorare di più, gli inattivi sono naturalmente in calo. Il tasso di occupazione sale al 61,7% e il tasso di disoccupazione sale al 7,4%; il tasso di inattività cala al 33,2%, comunque molto alto rispetto alla media europea; gli inattivi nella classe di età fra i 15 e i 64 anni restano12 milioni e 330 mila.



Rispetto a settembre 2022 gli occupati crescono del 2,2% (+512 mila unità). L’aumento del tasso di occupazione coinvolge sia uomini (+1,5%) che donne (+1,2%) e tutte le classi d’età, a eccezione dei 35-49enni per effetto del calo demografico: il tasso di occupazione sale per loro (+0,6 punti), ma solo perché il calo degli occupati 35-49enni è inferiore al calo della popolazione in quella classe di età. Sempre nei dodici mesi l’occupazione cresce per i dipendenti permanenti (+2,9%) e gli autonomi (+2,3%), mentre diminuiscono i dipendenti a termine (-1,6%).



Dopo un luglio e un agosto sostanzialmente a saldo zero, i numeri in crescita a settembre consentono al trimestre estivo di chiudere con un andamento del mercato del lavoro positivo, e ci sarà sicuramente chi esulterà. Vale la pena leggere i dati del lavoro assieme a quelli dell’economia italiana.

La crescita del Pil è a zero nel terzo trimestre, sia rispetto al trimestre precedente che rispetto all’anno scorso. L’inflazione di ottobre è all’1,8%, il che significa che i prezzi sono saliti dell’1,8% (non che sono calati…). La notizia positiva è dovuta in gran parte alla diminuzione dei prezzi dell’energia rispetto ai periodi precedenti dove erano balzati in alto, ma la componente inflattiva di fondo resta attorno al 4%, con i prodotti alimentari ancora in crescita al 6%. Insomma, le componenti che riducono i salari reali sono ancora in azione.



Sappiamo al momento che le retribuzioni contrattuali nel terzo trimestre sono cresciute su base annua del 3%, con i salari dell’industria in crescita del 4,5% e i servizi privati in crescita dell’1,6%. Poco, tenendo conto che dell’inflazione nei primi 9 mesi è salita a tassi di 5 punti più alti rispetto alla crescita dei salari.

Le stime di Istat sul lavoro non regolare, che provengono da incroci di dati di fonte diversa, per il 2021 ci ricordano che ci sono circa 2 milioni e 990 mila posizioni equivalenti al tempo pieno. Si tratta del 12,7% rispetto al lavoro regolare, con un andamento che segue la congiuntura economica e con una tendenza lenta alla diminuzione. È quindi possibile che sia in atto una migrazione progressiva dal lavoro totalmente in nero alla sottodichiarazione o alla parziale regolarizzazione delle posizione lavorative. Questa regolarizzazione spinge verso l’alto le statistiche occupazionali anche in mancanza di crescita economica. Si tratta di un effetto sostituzione che potrebbe durare ancora a lungo, visti i tassi molto alti di irregolarità.

Se non cresce l’economia e calano i salari, più persone sono spinte a cercare un lavoro per far arrivare la famiglia a fine mese. In un mercato in restrizione demografica questo significa maggiore mobilità del lavoro, anche in presenza di imprese che dichiarano una difficoltà di reperimento per circa la metà delle assunzioni previste (vedi i dati di Excelsior-Unioncamere). Ma i salari in calo significano anche maggiore scivolamento verso la povertà: 5,6 milioni di persone in povertà assoluta nel 2022, in crescita rispetto al 2021 e più che triplicate rispetto al 2012, quando la povertà assoluta riguardava 1 milione 725 mila persone. Che ci voglia una politica?

I modelli attuali di politica del lavoro sono basati sulle esperienze di successo degli anni fra il 2007 e il 2012, quando, soprattutto al nord del Paese, il mix tra ammortizzatori sociali, formazione e misure di accompagnamento al lavoro hanno fatto da sostegno alle ristrutturazioni del settore industriale e alla crescita del terziario legato alla logistica e alla diffusione del turismo urbano. Le politiche di allora, come quelle di oggi che a esse si ispirano, erano improntate a ridurre i tempi di permanenza nello stato di disoccupazione, condizionando maggiormente la fruizione di sussidi alla partecipazione attiva al mercato. Quelle politiche presuppongono un mercato comunque in espansione accompagnato da una demografia eccedente e un’etica del lavoro condivisa fra generazioni.

La stagione del Reddito di cittadinanza e le misure sanitarie hanno fatto venire meno (di fatto, non nei proclami) il legame tra sussidi e condizionalità; guerra, cambiamento climatico e andamento demografico hanno messo in dubbio la fede condivisa sulla crescita e se c’e’ una cosa su cui non siamo d’accordo, ai tempi dell’intelligenza artificiale, è quale senso abbia il lavoro. Insistere sulla velocità di ricollocazione, spesso garantita dal mercato del lavoro stesso senza che lo si aiuti più di tanto, produce successo per i lavoratori più forti e insuccesso per gli altri. Restano senza politiche dedicate la maggioranza dei 12 milioni e rotti di inattivi di cui probabilmente fa parte anche una fetta degli adulti in condizione di povertà assoluta. Senza buttar via il bambino delle attuali politiche attive del lavoro (comunque un bambino piccolo piccolo rispetto al Pil) assieme all’acqua sporca delle truffe sui sussidi, un ripensamento sulle fasce deboli del mercato è necessario, e stare fermi non basta.

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