Istat ha pubblicato i dati relativi all’occupazione di luglio 2023. Rispetto al mese di giugno gli occupati sono diminuiti di 73mila unità: dopo sette mesi di crescita il primo segnale di calo occupazionale. Tuttavia, se si guarda in una prospettiva annuale, gli occupati rispetto a luglio 2022 sono 362mila in più. Quindi si cala rispetto a giugno, ma rispetto all’anno scorso il bilancio è ancora positivo. Cresce il tasso di disoccupazione, al 7,6%. Dobbiamo cominciare a preoccuparci? Il calo congiunturale è segno che il massimo è stato raggiunto e che d’ora in poi il mercato comincerà a scendere? Colpa dei tassi? della Bce? Del Governo? No, è un po’ presto per preoccuparsi di questo dato congiunturale.
Dobbiamo invece preoccuparci dei dati strutturali. Entriamo nei dettagli e vediamo perché. Prima di tutto il calo è sensibile, ma l’occupazione a luglio e in generale nel terzo trimestre segna sempre una temporanea flessione. I motivi sono noti: anche se il turismo estivo occupa persone, la pausa estiva vede la risoluzione di un gran numero di contratti a termine a fine giugno in molti settori; luglio è anche il termine dei contratti per i precari della scuola. Le procedure di destagionalizzazione nei prossimi mesi potrebbero far rientrare il dato all’interno dei numeri soliti della pausa estiva. Un secondo fattore di riflessione è puramente tecnico: si tratta di dati provvisori di una indagine campionaria, e la diminuzione stimata non è più grande del margine d’errore; anche se le revisioni Istat sono sempre molto piccole, non si tratta di una variazione così brusca.
Preoccupiamoci invece della parte strutturale. Cosa ci mettiamo dentro? Innanzitutto il tasso di occupazione, che cala di nuovo al 61,3% dopo il “record” del 61,5%. La preoccupazione strutturale, di lungo periodo, è che siamo sempre distanti dai tassi di occupazione media dei Paesi più sviluppati. In Europa nel 2022 la media era al 75% per le persone di età compresa fra i 20 e i 65 anni, mentre per l’Italia era al 64,8%. I 10 punti di distacco restano lì e preoccupano: mancano lavoratori, mancano contributi al sistema pensionistico, mancano politiche del lavoro strutturali per colmare il gap. Nella parte strutturale ci sono anche le valutazioni sull’andamento demografico.
Tra giugno e luglio 2023, i giovani (15-24 anni) mostrano stabilità in termini di occupazione e inattività e una diminuzione della disoccupazione; le classi di età centrali sono quelle che registrano il calo dell’occupazione e la crescita della disoccupazione, a fronte della inattività in aumento tra i 25-34enni e invariata tra i 35-49enni. Gli ultracinquantenni alla stabilità dell’occupazione e della disoccupazione associano un calo dell’inattività. Se guardiamo i dati al netto della variazione demografica ci accorgiamo che il calo di occupazione nelle classi di età centrali è dovuto principalmente al calo della popolazione. Da notare il calo della popolazione tra 15 e 49 anni (negli ultimi mesi mediamente circa -1,5% annuo, pari a quasi 400mila persone) è determinato dalla fuoriuscita dalla classe di età dei 49enni, non compensata dall’ingresso dei 15enni. Naturalmente cresce la popolazione nella classe 50-64 anni (mediamente +1,1% annuo, pari a circa 150mila persone).
Siamo sicuri che farli (dovrei dire farci) andare tutti in pensione prima sia una manovra sostenibile? Il calo demografico spinge anche un terzo fenomeno che ormai appare strutturale: la crescita dei contratti a tempo indeterminato e il calo dei determinati, probabilmente per trattenere i lavoratori all’interno delle organizzazioni. Ma anche qui Istat ci ricorda che il lavoro standard (dipendenti a tempo indeterminato e autonomi con dipendenti entrambi a tempo pieno), è passato dal 65% del 2000 al 59,5% del 2022. Il calo demografico sarà una molla più potente della tendenza di lungo periodo a ridurre il lavoro standard? Rispetto al passato è più difficile fare previsioni. L’invasione dell’Ucraina continua con il suo peso di morti e di guerre economiche sul cibo e l’energia, la Cina vacilla con una serie di problemi finanziari legati al mattone che ostacolano la ripresa post-Covid, gli Usa sono in una loro fase di rallentamento del mercato del lavoro e della inflazione, combattuti fra crescita dei tassi e crescita del deficit pubblico.
Nell’Eurozona c’è aria di crisi (molti indicatori sono in calo) e anche il tasso di crescita dei salari negoziati sembra in rallentamento. Istat ha annunciato, in un documento pubblicato ad inizio di agosto, che comincerà a fornire informazioni trimestrali sul costo del lavoro e dei salari in occasione della pubblicazione trimestrale della rilevazione sulle forze lavoro entro il 2023. Attendiamo con ansia, vista la difficoltà di valutare domanda e offerta in mancanza di informazione sui prezzi.
Se è presto per gli allarmi, non è mai troppo presto per occuparsi dei problemi di struttura, che richiedono politiche di medio-lungo periodo. Su questo vedremo i segnali che il Governo vorrà dare con gli impegni in finanziaria, molti dei quali sono destinati ad avere un impatto diretto e indiretto su salari, inflazione e mercato del lavoro.
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