Dati Istat sul mercato del lavoro per il mese di gennaio. Occupazione stabile e diminuiscono i disoccupati. Se ci fermassimo qui potremmo dire che la situazione non è eccellente ma comunque positiva. Invece, anche se i dati mensili sono sempre da considerarsi indicazioni non risolutive, mettono in evidenza la debolezza e le contraddizioni del nostro mercato del lavoro.
Ci ricordiamo tutti che l’avvio del nuovo anno è stato sotto la paura che la pandemia colpisse ancora con forza. Scuole semichiuse, molto smart working da paure diffuse e città ancora semideserte. Ma i dati dell’economia erano positivi e ci si aspettava, come sta di fatto avvenendo, che i buoni risultati della campagna vaccinale avrebbero permesso una ripresa della socialità.
Eppure il clima del mercato del lavoro ha visto prevalere il pessimismo. Il dato importante è che meno persone si sono presentate sul mercato per cercare un’occupazione, e anzi, molte che la cercavano hanno smesso di farlo. Sono perciò aumentate le persone inattive e, rimanendo stabili gli occupati, si ottiene una diminuzione dei disoccupati.
Il tasso di occupazione complessivo è stabile al 59,2%, ma questo è il dato che ci deve fare dire che lavoriamo in troppo pochi, mancano 10 punti in percentuale di popolazione al lavoro per raggiungere gli obiettivi che ci siamo dati con i nostri partner europei. L’aumento di quanti si sono ritirati dal mercato del lavoro (74 mila in valore assoluto) indica gli altri problemi strutturali della nostra economia. Fra i delusi che gettano la spugna prevalgono le donne e i maschi sotto i 50 anni.
Riassumendo possiamo dire che appena vi sono problemi nell’andamento economico noi ci troviamo di fronte alle fragilità storiche del nostro mercato del lavoro. In primo luogo, una debolezza complessiva della domanda di lavoro per cui il nostro tasso di occupazione complessiva rimane troppo basso per un Paese che vuole crescere. La crescita rischia di avvenire con lavoro di bassa qualità e spesso nella zona grigia dei lavori in nero o solo parzialmente tutelati.
Le fasce deboli dei lavoratori sono quelle che pagano immediatamente il prezzo maggiore. Donne e giovani sono spesso impiegati attraverso contratti con basse tutele e sono quindi i primi espulsi dal lavoro. Soprattutto le donne sono impiegate in settori che risentono fortemente delle contrazioni della domanda di consumo di beni e servizi alla persona. Il passaggio da occupate a disoccupate e poi subito a scoraggiate che tornano fra gli inattivi è un percorso che viene svolto con grande velocità. Per le donne con basse qualifiche professionali, e per quelle residenti nelle zone più disagiate della nostra economia, possiamo dire che questo andamento caratterizza tutto il periodo della vita lavorativa ripetendosi più volte.
In questa fase sono accompagnate nel ritiro dal mercato da fasce di età centrali della manodopera maschile. Qui incomincia a farsi sentire il mismatching fra competenze degli occupati, nuove tecnologie e quindi percorsi di transizione delle imprese e dei lavoratori che richiedono una regia. In assenza di sostegni diventano altrimenti gruppi di occupati che, di fronte a strutture produttive che richiedono nuove professionalità, si ritirano dal mercato del lavoro non riuscendo a trovare percorsi formativi, né nuovi lavori.
Se allunghiamo lo sguardo da mensile ad annuale è evidente che abbiamo tutti i dati con segno positivo. D’altro canto l’inizio del 2021 era ancora fortemente influenzato dagli effetti del periodo peggiore del lockdown. Rispetto al gennaio ’21 abbiamo quasi 800 mila occupati in più. Sono meno i lavoratori autonomi ed è cresciuto il lavoro dipendente. È aumentato per uomini e donne ed è migliorato, anche se di poco, l’accesso dei giovani anche grazie all’effetto demografico. Per quanto riguarda il tasso di occupazione il 59,2% attuale è per due punti e mezzo superiore a quello di un anno fa.
Il confronto con i dati dei mesi a cavallo del ’20 e del ’21 rischia però di falsare i giudizi. L’asimmetria con cui ha agito la crisi da Covid fa sì che anche nella ripresa si evidenzino andamenti non lineari. La ripresa molto più lenta di settori come il turismo e filiere connesse, ad alta occupazione femminile, ci porta a notare come il tasso di ripresa dell’occupazione maschile è stata in questi mesi superiore alla crescita dell’occupazione femminile. La prossima uscita dalle limitazioni dovute alla pandemia dovrebbero riportare a normalità gli andamenti.
Siamo alla vigilia dell’8 marzo e quindi è bene sottolineare che la “normalità” del nostro mercato del lavoro non è la soluzione dei problemi delle lavoratrici. Il nostro Paese ricorre troppo poco al lavoro delle donne, in molte zone il tasso di occupazione femminile è da Paese preindustriale. Quando poi ricorre al lavoro femminile spesso offre lavori di bassa qualità, con bassi salari e contratti con bassi livelli di tutela dei diritti delle lavoratrici. Anche per molte donne impiegate nelle nuove professioni l’assenza di rispetto per i limiti di orario, la scarsità di servizi che permettano di conciliare scelte famigliari e lavoro e la diffusa mentalità del lavoro come questione maschile rendono difficile l’impegno alla piena partecipazione al mercato del lavoro.
L’esperienza dello smart working avvenuta per necessità con il lockdown imposto dalle ragioni sanitarie ha portato all’ordine del giorno il tema di un’organizzazione diversa del modo e delle forme del lavoro. Pur ricordando che solo una parte dei lavori permette l’alternanza fra ufficio e autorganizzazione delle attività non si deve scambiare questa fase di lavoro a distanza con una diversa organizzazione di sedi, forme ed orari di lavoro che deve comunque salvaguardare elementi di socialità, senza i quali anche la produttività e la soddisfazione individuale ne risentirebbero.
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