BOOM DISOCCUPAZIONE. Nella rilevazione periodica dell’Istat, relativamente al trimestre dicembre 2020-febbraio 2021, il livello dell’occupazione è inferiore dell’1,2% rispetto a quello del trimestre precedente (settembre-novembre 2020), con un calo di 277mila unità. Nel trimestre aumentano sia le persone in cerca di occupazione (+1,0%, pari a +25mila), sia gli inattivi tra i 15 e i 64 anni (+1,3%, pari a +183mila unità). Si tratta di dati particolarmente preoccupanti che invertono un ciclo di relativa tenuta riscontrata nei mesi precedenti dovuta sia alla ripresa produttiva, sia al blocco dei licenziamenti. Ma le statistiche che impressionano di più non riguardano il trimestre considerato, ma la correlazione tra i trend dell’occupazione e l’emergenza sanitaria.
Come scrive l’Istat, “le ripetute flessioni congiunturali dell’occupazione – registrate dall’inizio dell’emergenza sanitaria fino a gennaio 2021 – hanno determinato un crollo dell’occupazione rispetto a febbraio 2020 (-4,1% pari a -945mila unità). La diminuzione coinvolge uomini e donne, dipendenti (-590mila) e autonomi (-355mila) e tutte le classi d’età. Il tasso di occupazione scende, in un anno, di 2,2 punti percentuali. Nell’arco dei dodici mesi, crescono le persone in cerca di lavoro (+0,9%, pari a +21mila unità), ma soprattutto gli inattivi tra i 15 e i 64 anni (+5,4%, pari a +717mila)”. Su base annua l’occupazione è calata di 2,5 punti per gli uomini e di 1,8 punti per le donne ed è cresciuta per entrambi il tasso di inattività (di 2,3 punti tra gli uomini e 1,9 punti tra le donne) e quello di disoccupazione, rispettivamente di 0,7 punti e 0,2 punti.
In sostanza, oltre ai disoccupati in aumento, dall’inizio della pandemia (e dalle relative assunte contro l’emergenza sanitaria) a gennaio 2021, è scomparso un milione di posti di lavoro, mentre 717mila persone in più si sono collocate in una posizione di attesa senza neppure attivarsi nella ricerca di un impiego. Il forte calo degli occupati – sottolinea l’Istat – registrato nei dodici mesi coinvolge tutti: i permanenti diminuiscono dell’1,5% (-218mila), i dipendenti a termine del 12,8% (-372mila) e gli indipendenti del 6,8% (-355mila).
Sono numeri, questi, che parlano chiaro: in larga parte si tratta di mancate assunzioni e, nel caso degli autonomi, di attività economiche cessate. Sembrano quindi essere confermate le considerazioni di Carlo Bonomi, presidente della Confindustria: il blocco dei licenziamenti funziona in realtà da blocco delle assunzioni. I dati drammatici sull’occupazione non trovano adeguata spiegazione nelle rilevazioni periodiche del Centro Studi della Confindustria (CSC) almeno per quanto riguarda il settore. Anche se il trend subisce un ridimensionamento verso la fine dei periodi considerati. Nell’indagine rapida sulla produzione industriale del 3 marzo il CSC osservava che nei primi due mesi del 2021 il settore confermava la sua resilienza, pur nel contesto di una riviviscenza della pandemia. La tenuta dell’industria, il cui peso diretto sul valore aggiunto nazionale è di circa il 19% (al netto delle costruzioni), si scontrava con un settore terziario che vale oltre il 70% del Pil e che risultava ancora fortemente penalizzato dalle necessarie misure di contenimento introdotte dal Governo per limitare i contagi da Covid-19.
Le statistiche – secondo l’indagine – confermavano la netta divaricazione (che si va ampliando) tra queste due componenti del sistema economico e ciò rendeva probabile, in termini di Pil, il persistere di una situazione di estrema debolezza nel primo trimestre di quest’anno, dopo il -2,0% congiunturale nel quarto 2020. La produzione industriale italiana aveva continuato a crescere anche in febbraio (+0,7%) dopo il rimbalzo rilevato nel mese precedente (+1,3% congiunturale). Veniva atteso un contributo positivo dell’industria alla dinamica del Pil nel primo trimestre, a fronte di un comparto terziario che ancora indebolito dal persistere di limitazioni di attività in alcuni settori e negli spostamenti di persone, con pesanti conseguenze soprattutto lungo tutta la filiera turistica, (che ha subito – aggiungiamo noi – un’ulteriore mortificazione con il mancato avvio della stagione invernale).
Il CSC citava a conferma delle sue considerazioni il fatto che, secondo l’Istat, la fiducia delle imprese manifatturiere in febbraio sia tornata sopra i livelli di un anno prima, quando si era all’inizio dell’emergenza sanitaria: l’indice è salito a 99,0 contro 98,1 di febbraio 2020. Il recupero della fiducia, dopo la temporanea battuta d’arresto di gennaio, veniva spiegato da giudizi migliori su produzione e ordini, a fronte di un più basso livello di scorte (che erano state accumulate in gennaio). Questi dati indicavano – scriveva il CSC – che la domanda era cresciuta a un ritmo superiore rispetto a quello atteso, per cui vi era stata una diminuzione delle giacenze di prodotti finiti. La componente estera, in particolare quella di beni strumentali, rappresentava, secondo gli imprenditori, il driver principale.
Un mese dopo, nell’indagine di aprile i trend peggiorano, ma il sistema sembra reggere. Si è interrotta in marzo la crescita dell’attività nell’industria italiana (-0,1%, dopo +0,6% in febbraio e +1,0% in gennaio), ma nel primo trimestre del 2021 si stima un incremento dell’1,0% rispetto al quarto 2020. Tuttavia, “nonostante l’aumento delle restrizioni in Italia l’industria conferma dunque una buona tenuta, in questa fase sostenuta maggiormente dall’accelerazione della domanda estera. La domanda interna, meno dinamica a causa delle limitazioni negli spostamenti e nello svolgimento di alcune attività, incide sul comparto terziario che nel primo trimestre zavorra la dinamica del Pil, attesa in marginale arretramento. Le indagini qualitative (Istat e PMI manifatturiero) confermano un cauto ottimismo sull’evoluzione della domanda nei prossimi mesi, in linea con le rassicurazioni del Governo sulla rapida ed efficiente evoluzione della campagna vaccinale”.
In conclusione, osservando, ogni mese, le indagini rapide sulla produzione industriale del Centro Studi della Confindustria trova a mio avviso piena conferma il fatto che il sistema produttivo sia in grado di esprimere una significativa vitalità nonostante i vincoli e le restrizioni imposte per mitigare gli effetti della pandemia. Diversamente da quanto fu disposto nel primo lockdown, il comparto industriale è stato risparmiato dalle chiusure anche nelle zone rosse. I Protocolli hanno funzionato, dimostrando che non è impossibile contrastare il diffondersi dei contagi senza impedire di lavorare a centinaia di migliaia di aziende, da mesi sempre le stesse. In larga misura la crisi occupazionale è la conseguenza delle chiusure e delle restrizioni. La terapia è una sola: riaprire il più presto possibile e in sicurezza, nella consapevolezza che il rischio zero non esiste.
Certamente portare avanti la campagna di vaccinazioni è un’assoluta priorità. Ma è divenuta insostenibile una politica ossessionata dalla pandemia e dai suoi effetti, fino a non accorgersi delle conseguenze sul piano economico. Come sempre anche questa crisi ha molti padri, ma una madre sola: la mortificazione della produzione e del lavoro.
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