Infuriano le polemiche fra virologi, che con le loro differenti posizioni occupano tutti i talk show televisivi. Siamo diventati tutti esperti di analisi del virus, di come si diffonde, di cosa si può tenere aperto o chiuso. La confusione lessicale, che nasconde quella mentale, con cui il presidente del Consiglio ha presentato gli ultimi Dpcm decisi in pochi giorni non ha certo aiutato a fare chiarezza. Basterebbe usare pochi elementi di base di matematica per spiegare che quando si passa da una crescita proporzionale a una esponenziale significa che ogni giorno dobbiamo prevedere un forte aumento dei contagiati. Se ci fosse un tracciamento preciso dei positivi avremmo un numero certo e prevedibile di quanti arriveranno ai pronti soccorsi e ai vari reparti ospedalieri. E anche se con un numero approssimativo abbiamo oggi davanti una realtà assolutamente prevedibile e contro cui poco si è organizzato per tempo. È invece sottotono il coinvolgimento nel dibattito degli economisti e di quanti possono oggi prevedere come a valle dei nuovi provvedimenti avremo un grave problema economico.
La prima fase del lockdown ha colpito i più fragili e chi non gode di tutele, né di ammortizzatori. Chi ha diritto alla cassa integrazione ha avuto anche la tutela dal licenziamento, ma così sono usciti dall’occupazione lavoratori temporanei, partite Iva e precari. Ma anche fra chi ha avuto l’accesso alla Cig è aumentata la povertà: Caritas Ambrosiana ha appena stimato la forte crescita di domande di aiuto che venivano da lavoratori in Cig e che, dato il taglio al reddito che ciò ha comportato, non riuscivano più a mantenere la famiglia. A livello nazionale si stima che 4 milioni di famiglie abbiano dovuto ricorrere a prestiti straordinari.
Cosa determinerà quindi un nuovo lockdown? Censis, insieme a un’associazione di imprese, ha stimato che il solo Natale con le limitazioni di circolazione provocherebbe una caduta dei consumi di 25 miliardi di euro. Ciò porterebbe l’annus horribilis ad avere una caduta dei consumi del 19,5% pari a 229 miliardi di euro, con una perdita di 700 mila posti di lavoro nel solo commercio al dettaglio. Il centro di elaborazione dati delle Camere di Commercio ha cercato di analizzare come questi risultati negativi colpirebbero territori e settori economici. Il dato, già sviluppato su numeri della Banca d’Italia, ci diceva che si poteva stimare a 788 euro mese pro capite come media nazionale la perdita economica, con una forbice fra i 951 euro del centro-nord e i 473 (meno del 50%) al sud.
La crisi, come sottolineato più volte, è fortemente asimmetrica. Il nuovo blocco delle attività e della mobilità colpirà maggiormente settori che già nella prima fase avevano sofferto più d’altri. Ma anche i territori sono fortemente differenziati per il peso economico dei diversi settori e se la ristorazione sarà penalizzata ovunque, avremo città turistiche fortemente penalizzate (vedi Venezia), ma anche snodi logistici e di mobilità con Genova che pagheranno un forte calo di fatturato complessivo. La forte presenza del terziario, pubblico e privato, attenuerà l’effetto su Roma e Milano, ma lascerà gravi danni a chi lavora nell’ospitalità, cultura e turismo.
Il lavoro di elaborazione del Cerved misura l’effetto crisi del 2020 e lo estende alla lenta ripresa economica stimata per il 2021. La città che risulta avere il calo maggiore dei ricavi risulta Torino con il 20,2% seguita da Venezia, Cagliari e Genova fra il 19% e il 17%. Meno colpite le città con economia meno monosettoriale come Catania, Roma, Bari, Bologna e Milano. Quest’ultima peraltro è quella che paga il prezzo più alto in valore assoluto perdendo quasi 100 miliardi di euro.
L’asimmetria della crisi è rilevabile per i settori che lasciano le perdite maggiori nelle diverse città. A Roma è la distribuzione di carburanti e combustibili ad avere il calo relativamente maggiore con una perdita di oltre 11 miliardi. A Milano nella stessa situazione relativa sono i commercianti di autoveicoli e motocicli con un calo di 7 miliardi di euro.
Lo scenario di questi dati (la ricerca si occupa anche dei centri minori, oltre che delle aree metropolitane) porta a prevedere una crescita della disoccupazione, che avrà un’impennata con la fine del blocco dei licenziamenti, ma anche con una ripresa dell’occupazione che sarà fortemente diversificata per territori in funzione dei tempi di ripresa dei settori economici più presenti.
È intuitivo comprendere che Venezia vedrà la situazione occupazionale peggiore. Il peso di turismo e trasporti è tale che si valuta una perdita di posti di lavoro fra il 40% e il 50% con un trascinarsi della crisi di questi settori anche lungo tutto il prossimo anno e quindi un lungo periodo prima del riassorbimento degli effetti di questo periodo.
Anche in termini occupazionali Milano risulta prima in valore assoluto. Si stima verranno persi 300 mila posti di lavoro, il 29% del totale. Se la previsione a due anni prodotta dal Cerved risulta precisa avremo solo dalle aree metropolitane circa un milione e mezzo di posti di lavoro messi in crisi dal lockdown di primavera più quello di un mese autunnale (questa l’ipotesi della ricerca).
Non saranno tutti insieme disoccupati, ma occorrono chiaramente, visti i tempi diversi di ripresa dei diversi settori, politiche attive del lavoro e piani di rilancio dell’economia capaci di tenere conto della forte diversità settoriale e dei cambiamenti di comportamento che la pandemia ha indotto nei consumi.
L’asimmetria con cui sono stati colpiti i territori e i diversi settori dell’economia richiede un potenziamento di tutti gli strumenti formativi per sostenere l’aggiornamento delle competenze degli occupati e la formazione di nuove competenze per chi sarà obbligato a cambiare occupazione. Per rispondere a questa sfida qualcosa era già stato avviato con i provvedimenti economici di questa estate che davano vita al Fondo per le nuove competenze. È un esempio ancora caldo di come una buona idea può risolversi in nulla.
Il modello proposto è abbastanza semplice. Sulla base di un accordo sindacale le imprese possono avviare corsi di qualificazione dei propri dipendenti e otterranno un rimborso pari al costo delle giornate che il dipendente dedica alla formazione. I fondi distanziati non sono molti, ma si comprende che, qualora vi fossero risultati postivi, saranno impegnati nuovi fondi il prossimo anno. Peccato che il limite temporale per l’uso di questi fondi è il 31/12 e il decreto attuativo è uscito solo da pochi giorni.
Inoltre, una semplice domanda (sono questi aiuti di stato?) può bloccare l’iter di tutto grazie all’insipienza di qualche burocrate. L’esempio rende evidente quanto sia indispensabile operare per una reale semplificazione della burocrazia e perché i provvedimenti siano scritti in forma operativa.
Solo così potremo rispondere al giudizio negativo che l’ultimo numero dell’Economist dà sull’Italia.
Risultiamo come sistema Paese al 58° posto della classifica dei Paesi dove fare business. Ciò soprattutto perché siamo 97esimi per i tempi dei permessi a costruire, 98esimi per i tempi di apertura di nuove attività, 122esimi per rispetto dei contratti e per il diritto al risarcimento e 120esimi per semplicità delle norme fiscali. Ecco perché le priorità per il piano di investimenti post Covid deve partire dalla semplificazione delle norme e per fare forti investimenti sulle infrastrutture fisiche e legali.
Scegliendo di proseguire con la scelta di dare priorità al salvataggio di aziende decotte (vedi Alitalia) facciamo del male a noi stessi oggi e pregiudichiamo il futuro del Paese.