L’aggressione agli studenti di Azione Universitaria da parte di loro coetanei di sinistra dinanzi all’ingresso del Dipartimento di Sociologia avvenuta il 15 novembre, lascia abbastanza perplessi. I primi erano stati autorizzati ad entrare all’interno al fine di allestire una distribuzione di volantini in vista delle prossime elezioni studentesche (messe in calendario per il 19 e il 20 novembre): impedirne l’ingresso, aggredirli togliendo loro di mano i volantini e strapparli è un’aggressione violenta. Girarci intorno è inutile.
Ma sarebbe anche sciocco rubricarla come una probabile coda del “Meloni day”: l’aggressione è molto più problematica di quanto non si creda e proprio perché avviene dinanzi al Dipartimento di Sociologia dell’Università di Trento, cioè davanti all’istituzione che, per prima, ha introdotto la sociologia in Italia.
Sociologia non è un dipartimento qualunque in quanto il suo scopo è proprio quello di analizzare i fenomeni sociali oppure, se si preferisce l’altra tradizione di studi, analizzare l’azione razionale socialmente orientata. Mission di questo storico dipartimento, come di tutti i dipartimenti di sociologia nati a suo seguito in Italia, è quella di fornire a chiunque voglia acquisirli dei modelli interpretativi in grado di spiegare il presente, le tensioni che lo attraversano e le contraddizioni che lo agitano.
La buriana sessantottesca con la quale troppo spesso “Sociologia di Trento” viene riassunta è assolutamente fuorviante, in quanto va ricondotta e circoscritta allo spirito dell’epoca: i primi anni Sessanta. In quel periodo si fronteggiavano, l’una accanto all’altra, due tradizioni profondamente distinte: la prima volta a fornire alla Provincia autonoma di Trento funzionari qualificati per conoscenza e capacità di analisi; l’altra nata per interrogarsi sulle criticità della ben più vasta società contemporanea. Ciò che per i primi era una realtà da conoscere, per gli altri era un universo da cambiare. Gestione del presente e volontà di un mutamento d’epoca hanno così finito per convivere gli uni accanto agli altri detestandosi reciprocamente: l’esito è noto.
Da quegli anni molto è cambiato: gli uni e gli altri hanno finito per convergere in una lettura critica dei fenomeni emergenti. “Capire” ha finito con il precedere sempre il “cambiare” e, ancora di più, ha preceduto sempre di più la pretesa di orientare il cambiamento, dettando linee politiche e fornendo materiale incendiario alla facile retorica dei conflitti in corso. Da questo desiderio di capire prima di cambiare è scaturito un laboratorio di ricerca dal quale sono uscite indagini di indubbia utilità, come quelle sull’appartenenza e sul mutamento dei valori, sulle disuguaglianze e la mobilità sociale, sulla condizione giovanile e sui processi di transizione all’età adulta.
Di questo vasto laboratorio si sa poco, tanto le fibrillazioni dell’Italia politica hanno finito per togliere spazi all’Italia dell’analisi e della ricerca. La vecchia dicotomia tra capire e cambiare, con il primato del secondo sul primo, è rimasta nelle foto d’epoca, finendo così con il costituire l’unica dimensione possibile, come se nulla fosse veramente accaduto.
La presenza di studenti di Azione Universitaria poteva certamente essere un’occasione preziosa per porsi una lunga serie di domande cruciali. Quali, ad esempio, l’interrogarsi sulle rappresentazioni del mondo e della vita che animano oggi un universo che politicamente si pone a destra dello schieramento politico e che, per decenni, è stato intercettato come un gruppo di meri nostalgici. Si sarebbe potuto chiedere loro come riescano a coniugare il ruolo dell’autorità in un’epoca che fa dell’antiautoritarismo uno dei suoi pilastri di riferimento. Come sia per loro possibile recuperare valori, come quello della famiglia e della cristianità che, per diverse ragioni, sono oramai alla periferia della nostra società laica e secolarizzata. Ancora, si sarebbe potuto chiedere loro quali siano, a loro avviso, i poli di riferimento a partire dai quali cambiare l’Italia e se credano veramente che ciò possa essere ragionevolmente possibile. In che misura una politica di “destra” si distingua realmente dal semplice liberismo economico in funzione del capitale.
Li si sarebbe potuti interrogare se esista o meno una vera classe dirigente di destra e, qualora esista, cosa questa possa significare sul piano culturale oltre che politico. Ci si sarebbe potuti interrogare sul ruolo ed il significato reale di una leadership femminile come quella della presidente del Consiglio. Ci si sarebbe potuti interrogare, paradossalmente insieme a loro e non contro, su quanto il carisma personale di quest’ultima prevalga su quello di ufficio. O anche, a voler essere più polemici, se esista o meno un cerchio magico intorno alla sua persona e quindi una sorta di leadership interna, magari su base famigliare come spesso polemicamente si vocifera, tale da porre tutte le altre in posizione di minoranza.
Insomma, era un’occasione preziosa e il Dipartimento di Sociologia di Trento il luogo forse più autorevole d’Italia per porre questo tipo di domande, in un dibattito a più voci, in un confronto che avrebbe potuto anche essere critico senza scadere negli slogan.
Purtroppo così non è stato e gli studenti di Azione Universitaria sono stati trattati come, sessant’anni fa, quelli del Fuan, che a parlare nemmeno ci provavano. Quella negazione della “agibilità politica”, ostentata a sinistra come certificato di sana verginità antifascista, ha continuato ad operare come stella polare. Come se fossimo tutti nel 1964 e non nel 2024. Come se un Partito Comunista e una Democrazia Cristiana esistessero ancora, l’asse Craxi-Andreotti-Forlani fosse ancora di là da venire e il Cavaliere di Arcore non avesse già cavalcato e rivoluzionato il mondo dei media e, con questo, l’intero modo di fare politica.
C’è qualcosa di romanticamente disperato in questi “anonimi compagni”. Ma è un romanticismo che picchia, strappa volantini e percuote volti e persone; non funziona così. Non si può rinunciare a comprendere, magari anche empaticamente, un universo così inedito, costituito da una destra che non smette di espandersi e che costituisce la prova provata di un mondo inatteso. Sociologia è stata pensata e voluta per questo. Non analizzare quanto accade per rifugiarsi nella reazione emotiva non è solo un peccato veniale, ma costituisce un’occasione perduta.
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