Vladimir Putin sta affrontando la più grave minaccia da quando è al potere ed è senza dubbio sconcertante assistere al crollo totale di quella patina di controllo che ha mantenuto per tutto questo tempo, e che rappresenta il punto di forza della sua autocrazia. Il golpe è fallito, ma per la Russia potrebbe essere infatti l’inizio della fine. Dopo la rivolta della brigata Wagner che rischiava di far precipitare la Federazione Russa una guerra civile, deve affrontare una situazione di profonda instabilità in un momento di evidente vulnerabilità. Gli analisti dell’Istituto per lo studio della guerra (Isw) ritengono che la rivolta del gruppo Wagner danneggerà in maniera sostanziale il governo di Putin, oltre allo sforzo bellico in Ucraina. «La ribellione ha messo a nudo la debolezza delle forze di sicurezza russe e ha dimostrato l’incapacità di Putin di usare le sue forze in modo tempestivo per respingere una minaccia interna, erodendo ulteriormente il suo monopolio sulla forza».
Da non trascurare anche il fatto che i combattenti Wagner, in alcuni casi, sono stati accolti calorosamente dai residenti di Rostov sul Don. «Il vertice russo ne esce squalificato. È in corso un rimescolamento nei rapporti di forza fra le fazioni del sistema putiniano. Crepe profonde minano la piramide del potere, fino a minacciarne il crollo», osserva Lucio Caracciolo su Limes. Il direttore della rivista italiana di geopolitica ritiene che l’incapacità di prevenire il tentativo di golpe, che era stato annunciato da mesi, «svela la fragilità delle strutture militari e di sicurezza russe. E potrebbe inaugurare una guerra civile dagli effetti imponderabili».
PERCHÉ ORA TUTTO PUÒ CAMBIARE IN RUSSIA
Anche se confinato in Bielorussia, Prigozhin continuerà a rappresentare un insidia per Putin. Non potrebbe essere altrimenti, visto che il colpo di forza del capo della Wagner ha fatto tremare il Cremlino. Un’azione spettacolare e anche per questo clamorosa, anche tenendo conto del fatto che Prigozhin era considerato vicinissimo al presidente russo. Mai nessuno aveva sfidato Putin in modo così esplicito e nessuno aveva ottenuto così tanto da lui. Il fallito golpe ha lasciato comunque il segno, anche nell’immagine del presidente russo che appariva inscalfibile. Infatti, sta crescendo l’idea che la rivolta non sia stata un’azione individuale, ma agevolata da sostegni e complicità nelle sfere del potere militare e civile. La sfida lanciata a Putin è stata seria e il presidente non è apparso affatto in controllo, infatti la fine della marcia è stata propiziata dalla mediazione del presidente bielorusso Lukashenko. Per la prima volta Putin si è ritrovato a fare un appello all’unità della nazione, finora non ne aveva mai avuto bisogno. Può ancora contare sul sostegno delle élite civili e militari, ma soprattutto per convenienza, perché non c’è alternativa. La rivolta è però il segnale che qualcosa può davvero cambiare, perché è stato qualcosa che appariva inimmaginabile. Il potere di Putin non è monolitico come sembrava che fosse. L’insurrezione è finita, ma tutto può cambiare ora.
IL REGIME DI PUTIN E’ “MALATO”?
«La debolezza della Russia risiede anche nel fatto che il suo esercito assomiglia a un arcipelago più che a un sistema integrato», ha aggiunto Lucio Caracciolo a Rainews24. Quindi, per l’esperto non si possono escludere nuovi tentativi di golpe. «Non è possibile fare un golpe con poche migliaia di persone. Ma il golpe fallito ha messo in evidenza l’inesistenza del sistema russo». Un altro che ritiene che non sia finita qui per la Russia è Abbas Gallyamov, ex speechwriter e stretto collaboratore di Putin, ora nella lista dei ricercati del Cremlino. «Il fatto che la mediazione sia stata affidata ad un agente esterno alla Russia, la dice lunga sullo stato di salute del regime di Putin. Non solo non sono stati capaci militarmente di fermare la Wagner mentre avanzava verso Mosca, ma un duro colpo è stato inferto anche al sistema politico interno: da questa storia è venuto fuori che al Cremlino non c’è nessun negoziatore capace di mediare tra Putin e Prigozhin», ha dichiarato al Fatto Quotidiano. Intanto, alcune persone vicine a Putin sarebbero già in fuga. «Alcuni patti tra capi sono saltati e la fragilità potrebbe divenire anche disgregazione, con conseguenze globali che sarà difficile gestire, ammesso che sia possibile. La continuità tipologica tra la Russia di ieri e quella di domani, non esclude la moltiplicazione dei frammenti», scrive Luca Diotallevi sul Messaggero.
RUSSIA PRONTA A “TRANSIZIONE”
L’inizio della fine, dicevamo. Il potere di Putin si basa su propaganda e l’immagine di invincibilità, ma all’improvviso le cose sono apparse diversamente. La Federazione Russa appare unita e l’indice di gradimento del presidente è altissimo, i suoi oppositori più accesi sono in esilio o in prigione, non ci sono partiti di opposizione significativi e giornali critici. Eppure, stando a quanto riportato dal Telegraph, i siloviki, gli uomini forti che circondano Putin (ex ufficiali del Kgb), percepiscono la sua vulnerabilità e stanno stringendo alleanze in vista della transizione. I generali e gli ammiragli che detengono l’altra metà dei codici nucleari potrebbero essere decisivi. Forse nove regioni e repubbliche russe potrebbero essere pronte a indire referendum per l’indipendenza, non sopportando più Mosca che si appropria delle sue risorse naturali, arruola i giovani senza offrire nulla in cambio. Peraltro, pare che grandi aziende come Gazprom abbiano eserciti privati, presumibilmente in previsione di dover difendere i loro beni con la forza nel caos che seguirà la caduta di Putin. Di tanto in tanto si parla di assorbire queste milizie nell’esercito regolare, ma la questione più immediata è quale fazione sostenere se il regime dovesse crollare.
Il giornale britannico parla di movimenti indipendentisti in Buriazia, Sakha, Daghestan, Cecenia, Kamchatka Krai, Komi, Novosibirsk, Arcangelo e Tatarstan. In tutti questi luoghi, le élite locali si stanno preparando in vista di un possibile cambiamento, un’occasione per tagliare i legami con un regime moscovita sconfitto e disonorato e unirsi alla comunità delle nazioni come repubbliche ricche di risorse. La disgregazione della Russia potrebbe avere conseguenze negative anche per l’Occidente, ma il Telegraph avverte: «L’Occidente non deve ripetere l’errore commesso nel 1990, quando ha cercato di tenere insieme l’URSS. Fermare la disgregazione della Russia non è nelle nostre possibilità, ma lo è il nostro rapporto con gli Stati successori. Può darsi che un nuovo Stato moscovita possa essere deflazionato, denuclearizzato, democratizzato e, un giorno, ammesso nell’alleanza euro-atlantica. Ma solo quando l’attuale regime sarà stato completamente sconfitto – una prospettiva che ora è più vicina che mai».
LA MINACCIA DELLE TESTATE ATOMICHE
Sullo sfondo il terrore nucleare. Le Cancellerie occidentali e della Nato hanno iniziato a confrontarsi sui rischi nel caso in cui la situazione divenisse totalmente incontrollabile, con conseguenze imprevedibili. Le attenzioni dell’Alleanza Atlantica si sono concentrate sulle oltre 1.400 testate atomiche presenti sul territorio e pronte all’uso. Ancora adesso l’allarme non è cessato, perché nessuno ha certezze sulla tenuta sul medio periodo della tregua siglata da Prigozhin. Se Putin fosse costretto alla fuga, in quali mani finirebbe la “valigetta” con i codici per lanciare i missili? E quanto sono sicure le basi dell’esercito russo? Ma lo stesso Putin potrebbe decidere di ricorrere alle armi nucleari in Ucraina, nella speranza di risolvere la situazione almeno su quel fronte. Una soluzione disperata che costringerebbe la Nato a rispondere. Uno scenario pericolosissimo, motivo per il quale l’Occidente ha precisato di non avere alcun ruolo nella rivolta Wagner, onde evitare che il Cremlino potesse giustificare un atto di ritorsione con il coinvolgimento di Usa o Nato.