Secondo quanto riportato da alcuni psichiatri, “un terzo in più di persone avrà disturbi mentali legati alla pandemia”. Non è la prima volta che lo si sottolinea: più di due mesi in casa potrebbero aver provocato problemi di ansia e depressione non solo in chi ha perso un familiare, ma anche in chi è rimasto in quarantena. Secondo il professor Mario Pollo, docente associato di Pedagogia Generale e Sociale a tempo pieno della Facoltà di Scienze della Formazione della Lumsa di Roma, “questi annunci vanno presi con le pinze. Non si basano su censimenti precisi, perché se ci sono medici che hanno visto questo aumento di pazienti, ce ne sono sicuramente altri che non hanno avuto la stessa evidenza. Un dato deve essere frutto dell’osservazione di un campione rappresentativo, bisogna quindi essere prudenti su notizie come questa”. Ci sono però aspetti importanti su come il periodo di lockdown, e adesso quello della ripresa delle relazioni sociali, ha segnato le persone.



Frequentando i social e parlando con le persone, si è notato che molte sono rimaste segnate da questo periodo di isolamento: fatica e solitudine sono diventate un peso insostenibile. Cosa ne pensa?

Questo è un dato su cui si può ragionare. L’isolamento è sempre un fatto negativo, a meno che la persona non abbia una consuetudine a vivere la solitudine.



Cosa intende?

La solitudine ha valenze positive. Alcuni possono trovarsi isolati e imparare a vivere la solitudine, ma la maggioranza di chi vive l’isolamento lo percepisce come qualcosa di traumatico. Anche perché viviamo una realtà che ci abitua a proiettare tutto all’esterno.

Intende dire che il tipo di società contemporanea contribuisce a creare un modello di persona incapace di stare da sola?

Nella stessa psicologia contemporanea i modelli di riferimento sono diventati quello cognitivo e quello comportamentale. Le vie dell’introspezione e dell’analisi interiore praticate una volta oggi sono definite prive di valore scientifico e quindi accantonate. La via dell’interiorità è invece l’unica via che l’essere umano ha a disposizione per comprendere se stesso. Sant’Agostino diceva che la coscienza è il luogo del dialogo dell’anima con se stessa, ma oggi questo tipo di dialogo non è contemplato. Siamo quindi centrati sui comportamenti, la stessa nostra identità non è più capace di scrutare noi stessi, ma questa capacità è data dalle relazioni con gli altri, che disegnano la nostra identità. Se vanno in crisi le relazioni, la mia stessa identità comincia a sgretolarsi, si perdono la capacità e la sicurezza in se stessi.



Però, come dice la famosa frase “nessun uomo è un’isola”, le relazioni con l’altro sono fondamentali per il nostro equilibrio, non crede?

L’antropologo francese Marc Augé in un suo lavoro parla di identità e alterità virtuale. La televisione ci ha abituati a scambiare il vedere con il conoscere. Solo perché una cosa la vediamo pensiamo di conoscerla. L’idea che si è sviluppata nella vita reale ci fa pensare di conoscere l’altro limitandosi all’immagine che ci dà e per l’altro io sono la sua immagine. Ma perdo la capacità di sapere chi sono.

Ci può spiegare meglio?

La realtà richiede l’incontro tra i corpi, nei social le persone danno di sé una immagine che non è detto corrisponda a chi sono veramente. Molti preferiscono questo tipo di comunicazione perché non mette in crisi l’identità che si sono costruiti. Nei rapporti reali, invece, saltano fuori aspetti, a volte anche dei conflitti, che mi aiutano a scoprire chi sono io e chi è l’altro.

E’ interessante come in questo periodo di isolamento non siano andati in crisi solo i single, ma anche molti nuclei familiari. Come mai, secondo lei?

Un sociologo, Urlich Beck, sosteneva che oggi ci troviamo davanti alla cosiddetta famiglia zombie. Le famiglie, secondo Beck, sono come dei contenitori di progetti individuali, dove ogni membro persegue un suo progetto, ma non c’è più un progetto comune condiviso. Non c’è più la dinamica secondo la quale quei legami comunitari fanno sì che il mio progetto sia parte di un progetto più grande e dove gli altri membri sono solidali tra di loro. C’è qualche momento di identità, ma nessuna condivisione, ognuno è solo con il suo progetto di vita. La convivenza forzata fa venire fuori aspetti che nella normale convivenza rimanevano nascosti.

Adesso che l’isolamento sta finendo, ci sono persone che hanno paura a uscire di casa per il rischio di essere contagiate. Come si fa a costruire un nuovo modello di socialità in queste condizioni?

Una favola di Schopenhauer parla di un gruppo di porcospini che per difendersi dal freddo si erano raccolti uno vicino all’altro. Ma gli aculei li pungevano, e allora si allontanavano. Poi però il desiderio del caldo che avevano provato li faceva tornare ad avvicinarsi, ma si pungevano nuovamente e via così. Fino a quando non hanno trovato tra loro una distanza sicura, tale che non li facesse pungere ma ricevere comunque il caldo sufficiente. Così è per noi. Il timore dell’altro suscita ansia persecutoria, la paura di non stabilire un rapporto come fonte di aiuto nei rapporti sociali. Si deve trovare una situazione di equilibrio.

Come usciamo, allora, dalla paura di perdere la sicurezza?

Le regole sociali normali ci aiutano a tenere a freno l’ansia persecutoria e quella depressiva. Il lockdown, il virus, il bombardamento mediatico, i moniti severi degli esperti hanno fatto saltare le distanze sociali, che prima erano ritenute normali. Le hanno destrutturate. La persona oggi non ha più come riferimento questi parametri. Per convivere con il virus dovremo reimparare a ricostruire distanze sociali adeguate a scambiarci affetto e solidarietà, senza però correre il rischio di “pungerci”.

(Paolo Vites)

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