Per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid-19, il Governo ha bloccato per un periodo di 60 giorni, dal 17 marzo al 15 maggio 2020, tutti i licenziamenti di carattere economico. L’unico precedente che si ricordi è il blocco legale dei licenziamenti tra il 1945 e il 1947. Il che dà il senso dell’eccezionalità dell’intervento legislativo, evidentemente motivato da ragioni di ordine pubblico. Più precisamente l’art. 46 del d.l. n. 18 del 2020 prevede: 1) la sospensione delle procedure (in sede sindacale e amministrativa), avviate dopo il 23 febbraio scorso, richieste per i licenziamenti collettivi (artt. 4, 5, 24, l. n. 223 del 1991); 2) il divieto (“è precluso”) di avviarne di nuove; 3) il divieto per il datore di lavoro di licenziare dipendenti per giustificato motivo oggettivo (art. 3, l. n. 604 del 1966).
Il blocco si collega alle misure contenute dallo stesso decreto legge (artt. 19-22) di estensione della Cassa integrazione ordinaria, straordinaria e in deroga, secondo un disegno che punta a rendere le conseguenze economiche dell’epidemia temporaneamente irrilevanti quali ragioni di riduzione del personale delle aziende. Difatti, ai datori di lavoro resta il potere di licenziamento individuale per inadempimento del lavoratore (giustificato motivo soggettivo o giusta causa). Così come è da ritenere che siano consentiti i singoli licenziamenti conseguenti alle eventuali procedure per licenziamento collettivo concluse prima del 23 febbraio 2020, in quanto motivate da ragioni diverse da quelle connesse all’epidemia.
Se, fuori da quest’ultima ipotesi, sospensione e preclusione delle procedure impediscono di ricorrere ai licenziamenti collettivi, il datore di lavoro neppure può procedere con licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo. In ogni caso, infatti, fino al 15 maggio, qualsiasi datore di lavoro, indipendentemente dal numero di lavoratori occupato, “non può recedere” dal contratto di lavoro per tal ragione.
La formula usata è analoga a quella dell’art. 54, d.lgs. n. 151 del 2001, che vieta il licenziamento della lavoratrice in gravidanza, del quale è sancita espressamente la nullità. Nel caso in esame, non c’è esplicita menzione del tipo di invalidità conseguente al licenziamento vietato, ma è da ritenere che anch’esso sia nullo e improduttivo di effetti in quanto intimato in violazione di norma imperativa (oltretutto d’ordine pubblico).
La situazione, del resto, non differisce dal licenziamento intimato prima del superamento del periodo di comporto (art. 2110 c.c.), del quale le Sezioni Unite della Cassazione hanno sancito la nullità (Cass. S.U. 22 maggio 2018, n. 12568).
In presenza di un licenziamento vietato dall’art. 46, per stabilire le conseguenze sul piano sanzionatorio occorre innanzitutto distinguere la tipologia del contratto receduto, se a “tutele crescenti” – ossia stipulato a partire dal 7 marzo 2015, ai sensi del d.lgs. n. 23 del 2015 – o no. Nel secondo caso, è indubbia la reintegrazione nel posto di lavoro, che l’art. 18, comma 1, l. n. 300 del 1970, come modificato dalla l. n. 92 del 2012, commina nei casi di “nullità previsti dalla legge”, qual è, ai sensi dell’art. 1418 c. c., la violazione di norme imperative. Più incerta è la soluzione nel caso di contratto a tutele crescenti, perché la reintegrazione si applica nei “casi di nullità espressamente previsti dalla legge” (art. 2, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015), ai quali, secondo alcune sentenze di merito, non sarebbe riconducibile l’ipotesi di nullità per violazione di norme imperative, ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c. In ogni caso, anche a prescindere dalla correttezza formale dell’interpretazione, la diversità di trattamento è discutibile sul piano della ragionevolezza.
Un’osservazione conclusiva. Il disegno legislativo è, s’è visto, chiaro e condivisibile, tenuto conto della gravità della situazione. Scaduto il blocco, tuttavia, resteranno le ripercussioni della pandemia sugli assetti produttivi, tanto più dopo la sospensione di gran parte delle attività produttive. Senza adeguate politiche di sostegno alle aziende, il rischio è che si avvii un’ondata di licenziamenti.