In una recente intervista il ministro del Lavoro Nunzia Catalfo ha annunciato che nel decreto ex aprile, ora maggio, sarà confermato lo stop ai licenziamenti per altri tre mesi. Verosimilmente Catalfo si riferisce a una norma (Articolo 46: Sospensione delle procedure di impugnazione dei licenziamenti) contenuta nel dl n. 18/2020 definito “cura Italia”. Secondo quanto dispone il comma 1, a decorrere dal 17 marzo 2020, sono precluse per 60 giorni l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24, della legge n. 223 del 1991 (le procedure per la mobilità e la riduzione di personale), e sospese per il medesimo periodo le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020. Sino alla scadenza del suddetto termine (il 17 maggio), il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge n. 604 del 1966.
In sostanza, per il periodo previsto, sono bloccati sia i licenziamenti collettivi che quelli individuali di carattere economico (il c.d. motivo oggettivo). Sarà rinnovata così una misura impegnativa per altri 60 giorni avvicinandone la scadenza alla stessa data in cui dovrebbe essere superata l’emergenza (il 31 luglio). Del resto, il Governo intende mantenere la parola: nessun lavoratore perderà il posto a causa del coronavirus, a meno che – è implicito – non si verifichi un motivo soggettivo (giusta causa e giustificato motivo).
Sul piano giuridico, il “blocco” cessa trascorsi ulteriori 60 giorni dalla sua decorrenza, ma chi si incammina su questa via sa come si entra ma non come e quando si esce. Occorre andare all’immediato dopoguerra per trovare una norma di tale portata, sia pure caratterizzata da una maggiore durata. La drammatica crisi occupazionale del dopoguerra e la necessità di mantenere a ogni costo i posti di lavoro esistenti resero evidente la problematica dei licenziamenti ed impellente una soluzione, di cui si fecero carico le parti sociali. Il blocco dei licenziamenti fu decretato nel 1945 e 1946 per salvaguardare i livelli occupazionali dell’epoca. E fu la fine di queste misure di emergenza a dare impulso alla contrattazione collettiva interconfederale, nel predisporre, per quanto riguarda il recesso dal rapporto di lavoro, una disciplina specifica e più ricca di quella codicistica, dando vita alla distinzione tra licenziamenti individuali e licenziamenti per riduzione del personale: i primi da giustificare o indennizzare se privi di giustificazione; i secondi da sottoporre a procedure negoziali con i sindacati.
Con gli accordi interconfederali del 1947, poi del 1950, rinnovati nel 1965, applicabili al solo settore industriale, l’autonomia collettiva introdusse per la prima volta il principio della necessaria giustificazione del licenziamento, dando al lavoratore la possibilità di impugnarlo mediante il ricorso a procedure conciliative o arbitrali, all’esito delle quali poteva, in caso di accoglimento della domanda, essere emanata una pronuncia, secondo equità, che imponeva al datore la riassunzione ovvero, in alternativa, il pagamento di una penale risarcitoria commisurata a un certo numero di mensilità di retribuzione e alle dimensioni dell’impresa. Nel 1966 (con la legge n. 604) ebbe inizio una regolamentazione legislativa della materia (il licenziamento individuale) che si consolidò in un regime di tutela reale del licenziamento ingiustificato (art. 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970) per approdare, a partire dal 2012 (con legge n. 92) e fino al 2015 (dlgs n. 23 in attuazione del Jobs Act) a una differenziazione della tutela per chi era assunto dal 7 marzo in poi (contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti), mentre per coloro che erano occupati prima di quella data continuava ad applicarsi l’art. 18 come riformato nel 2012. Queste due leggi costituiscono – almeno per ora – la conclusione di un lungo dibattito riguardante le fattispecie di tutela (reale o obbligatoria) a sanzione del licenziamento individuale ingiustificato.
Tornando al punto e considerando le enormi difficoltà incontrate dal legislatore nel tentativo di riformare l’articolo 18 della legge n. 300/1970 (di cui quest’anno ricorre il cinquantenario), a fronte degli effetti che la crisi e la relativa quarantena hanno determinato sulla struttura produttiva del Paese, in conseguenza della quale si porranno inevitabilmente dei problemi di esuberi, non sembra opportuno disporre una sorta di “imponibile di mano d’opera” al sistema delle imprese. Il Centro Studi della Confindustria (Csc) ha rilevato una diminuzione della produzione industriale del 26,1% in aprile su marzo, quando è arretrata del 25,4% su febbraio. Nel primo trimestre 2020 si registra una variazione congiunturale di -7,5% (da -1,2% nel quarto 2019). La produzione, al netto del diverso numero di giornate lavorative, è arretrata in aprile del 45,2% rispetto allo stesso mese del 2019; in marzo è stimata in calo del 26,5% sui dodici mesi. Gli ordini in volume scendono del 44,6% in aprile su marzo (-42,1% annuo), quando sono diminuiti del 23,7% su febbraio (-52,7% annuo). La caduta dell’attività nei due mesi di rilevazione è, pertanto, di poco superiore al 50% cumulato.
Non ci sono precedenti storici di tale entità. Questa dinamica è spiegata – secondo il Csc – da due fattori: da una parte, il blocco dell’attività nell’industria, deciso con Dpcm del 22 marzo, che ha riguardato quasi il 60% delle imprese manifatturiere per poco più di una settimana a marzo e per tutto aprile; dall’altra parte, ha inciso una dinamica molto bassa sia della domanda interna, che ha risentito delle chiusure delle attività in alcuni settori del terziario e delle limitazioni agli spostamenti delle persone, sia di una domanda estera che è stata fortemente intaccata, soprattutto in aprile, dalla diversa tempistica con la quale sono state introdotte misure restrittive nei partner commerciali dell’Italia dove si è diffuso il virus.
La variazione acquisita della produzione industriale nel secondo trimestre è di -40,0%; per i prossimi mesi, quando è attesa una modesta ripresa della domanda, c’è da prevedere un forte rimbalzo congiunturale dell’attività (variazione rispetto al mese precedente), pur in presenza di una variazione tendenziale (ovvero rispetto allo stesso mese dell’anno precedente) ancora negativa. Anche tenendo conto di una dinamica positiva in maggio e giugno, la produzione nel secondo trimestre è attesa in diminuzione a un ritmo più che doppio rispetto a quello registrato nel primo. La ripartenza sarà graduale, nonostante la fine del lockdown, perché le abitudini di spesa delle famiglie sono cambiate e difficilmente torneranno in tempi rapidi a quelle precedenti e perché le imprese – come evidenziano le recenti indagini qualitative – negli ultimi mesi hanno accumulato scorte che dovranno essere smaltite prima che il ciclo produttivo possa tornare a ritmi normali.
Per queste ragioni la maggioranza delle imprese, con poche eccezioni, lavorerà a un regime ridotto per diversi mesi. Gli scenari del Csc sono piuttosto foschi. Le aziende hanno bisogno di liquidità, anche a fondo perduto. E le istituzioni europee hanno fatto la loro parte. Il Governo italiano, nel decreto di maggio, dovrebbe varare un piano di finanziamenti che non ha precedenti. Ma, come ha detto in una recente intervista l’ex ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schauble, lo Stato non può sostituirsi per sempre al fatturato. Il Def ha previsto un incremento della disoccupazione superiore al 2% (che si traduce in 500mila posti di lavoro in meno). Altre previsioni sono molto più severe. Non è possibile, pertanto, immaginare che i livelli di occupazione siano mantenuti per legge, con ulteriori proroghe della sospensione dei licenziamenti, né che si disperda tanto capitale umano e professionale nei meandri di un assistenzialismo permanente. Anche perché le difficoltà insorte nell’impiego di lavoratori (gli adempimenti di carattere sanitario) finiranno per favorire il più possibile l’automazione con finalità sostitutive.
Sul che fare sono venute delle proposte interessanti da Pietro Ichino in un articolo pubblicato da Il Foglio, il 1° maggio. “In Italia alla fine dell’anno scorso – ha ricordato Ichino – si censivano un milione e duecentomila situazioni di skill shortage, cioè posti di lavoro permanentemente scoperti perché le imprese non trovavano le persone adatte per ricoprirli. Dei veri e propri grandi giacimenti occupazionali inutilizzati. Dunque non è la domanda di lavoro che manca: a mancare sono i servizi di informazione, di orientamento professionale per gli adolescenti e per gli adulti, di formazione e addestramento mirati a rispondere alla domanda finora insoddisfatta, capaci davvero di soddisfarla. E la cui capacità di soddisfarla sia controllata capillarmente, misurata e resa conoscibile da tutti gli interessati. Capisco – ha continuato – che può sembrare assurdo, al culmine – come siamo oggi – della recessione più grave da un secolo a questa parte, parlare di grandi ‘giacimenti occupazionali’ inutilizzati. E però proprio di questo si tratta, e ancora di questo si tratterà nelle prossime settimane, nei prossimi mesi, quando centinaia di migliaia di aziende riapriranno o nasceranno. Per uscire da questa grave crisi è urgente dotare il nostro Paese di servizi di orientamento professionale e di formazione che rendano i lavoratori capaci di rispondere alla fame di personale qualificato e specializzato di cui soffrono le imprese”. Ecco una visione delle politiche e del mercato del lavoro che può contribuire, in maniera decisiva, alle sfide che ci attendono.