Dj Fabo, la seconda parte del processo a Un giorno in pretura
Il caso di Fabiano Antoniani, meglio noto come Dj Fabo, torna al centro della trasmissione “Un giorno in pretura”, in onda nella seconda serata di Raitre di sabato. Dopo la prima parte incentrata sulla “Passione di Dj Fabo”, questo secondo appuntamento si concentrerà sulla seconda parte del processo che si è celebrato in Corte d’Assise a Milano e che ha visto sul banco degli imputati Marco Cappato. L’uomo, esponente dei Radicali nonché dell’associazione Luca Coscioni, fu accusato di aver rafforzato e agevolato l’intento suicidario di Dj Fabo.
Cappato fu colui che accompagnò Fabiano in una clinica in Svizzera dove scelse di morire attraverso il suicidio assistito che gli fu amministrato dopo una visita medica e psicologica che confermò la sua piena volontà di morire. Il giorno seguente Cappato si autodenunciò e la procura di Milano fu così obbligata ad accusarlo di aiuto al suicidio. Per lui ebbe inizio il controverso processo che arrivò fino alla Consulta per poi concludersi il 23 dicembre 2019 con la sua assoluzione.
Il processo a carico di Marco Cappato
Nel secondo capitolo di “Un giorno in pretura” dedicato al caso di Fabiano Antonini e dal titolo “Dj Fabo, libero di morire”, l’accento sarà tutto su Marco Cappato e sul processo a suo carico che dovrà stabilire se l’uomo è colpevole oppure no. Il primo marzo 2017 Cappato viene indagato dopo la sua autodenuncia con l’accusa di aiuto al suicidio, e rischia da 5 a 12 anni di carcere. Nel maggio dello stesso anno i pm milanesi Tiziana Siciliano e Sara Arduini – come rammenta La Stampa – chiedono l’archiviazione motivando: “Le pratiche di suicidio assistito non costituiscono una violazione del diritto alla vita quando siano connesse a situazioni oggettivamente valutabili di malattia terminale o gravida di sofferenze o ritenuta intollerabile o indegna dal malato stesso”. Tuttavia il gip ne respinse la richiesta.
Il 10 luglio 2017, in seguito ad una seconda richiesta di archiviazione ancora respinta, il gip dispone l’imputazione coatta per Marco Cappato che vide nel processo a suo carico l’occasione per “processare una legge sbagliata dell’era fascista”. Cappato chiese il giudizio immediato, una scelta che lo stesso motivò asserendo: “Ho chiesto il giudizio immediato perché voglio che in Italia finalmente si possa discutere di come aiutare i malati a essere liberi di decidere fino alla fine”.
Il rinvio della Consulta e l’assoluzione
Il processo vero e proprio prese il via il successivo 8 novembre presso la Corte d’Assise di Milano e due mesi dopo, il 17 gennaio 2018, la procura ne chiese l’assoluzione ritenendo che Marco Cappato non ebbe “alcun ruolo nella fase esecutiva del suicidio assistito di Fabiano Antoniani e non ha nemmeno rafforzato la sua volontà di morire”. In subordine i pm chiesero alla corte di eccepire l’illegittimità costituzionale dell’articolo 580 del Cp, quello sull’aiuto al suicidio.
Un mese dopo la Corte chiese alla Consulta di esprimersi sulla legittimità costituzionale del reato di aiuto al suicidio. Il governo decise di costituirsi davanti alla Corte Costituzionale nel procedimento sollevato dalla Corte d’Assise milanese. La Consulta, di contro, chiese l’intervento del Parlamento per colmare un “vuoto legislativo” rinviando a settembre 2019 il verdetto sull’aiuto al suicidio quando ritenne “non punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile”, in attesa di un intervento del legislatore ritenuto “indispensabile”. “Da oggi siamo tutti un po’ più liberi”, fu il commento a caldo di Cappato che due mesi dopo fu assolto dalle accuse “perché il fatto non sussiste”.