Occhio! Il ministro Andrea Orlando e la sua vice Alessandra Todde hanno in mente una nuova strategia di politiche attive del lavoro che risolverà tutti i problemi. I Centri per l’impiego potranno continuare con i loro tran tran; i navigator se ne andranno al mare; l’assegno di riallocazione verrà usato in qualche caso per ricordarne l’esistenza e giustificarne il finanziamento; le Agenzie del lavoro continueranno a mantenersi con la somministrazione senza doversi occupare del placement; i centri di formazione potranno organizzare i soliti corsi per apprendiste parrucchiere al riparo delle critiche e dei tentativi di innovazione. A sistemare i lavoratori che perdono il posto dovrà provvedere l’azienda che chiude e li licenzia. In fondo è un principio della saggezza popolare: chi rompe paga e i cocci sono suoi. 



Questo disegno, nato dall’angoscia procurata dalle vertenze aperte nelle imprese che sono divenute il simbolo mediatico della mattanza dei posti di lavoro che seguirà – secondo i sindacati – la fine del divieto dei licenziamenti, viaggia su di una bozza di decreto che ha suscitato le reazioni – con dure critiche al ministro Orlando – del presidente della Confindustria Carlo Bonomi durante il suo intervento al Meeting di Rimini. Si parla dei casi di Whirlpool, Embraco, Gkn, Gianetti ruote, le medesime che furono definite – circa un mese fa in una bella intervista a Il Foglio – dal ministro Orlando “aziende che scontano problemi pregressi”. Tuttavia, le politiche del lavoro messe nero su bianco, a partire dalle proposte di riforma degli ammortizzatori sociali, sembrano rivolte prioritariamente a risolvere i problemi di queste aziende. Quanto alla bozza del decreto che dovrebbe chiamare le multinazionali a farsi carico delle ricadute sociali provocate dalla disinvoltura con cui vengono e vanno da un Paese all’altro, non vi è certezza dei contenuti, visto che i suoi autori si sono messi paura – nonostante la difesa di Enrico Letta – di aver osato troppo e di aver trovato il modo per far fuggire gli investitori esteri nel momento in cui ci sarebbe bisogno dei loro capitali. 



Intanto accontentiamoci di spiegare i contenuti della stesura che è circolata, anche se sono stati ridimensionati “prima che il gallo cantasse per tre volte”: 1) i soggetti: le imprese che al 1° gennaio dell’anno in corso occupano almeno 250 dipendenti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e che intendono procedere alla chiusura di un sito produttivo situato nel territorio nazionale con cessazione definitiva dell’attività per ragioni non determinate da squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne renda probabile la crisi o l’insolvenza. 2) gli obblighi: queste imprese sarebbero tenute a dare comunicazione preventiva con l’indicazione delle ragioni economiche, finanziarie, tecniche od organizzative del progetto di chiusura, il numero e i profili professionali del personale occupato e il termine entro cui è prevista la chiusura. 3) il piano: un ulteriore adempimento consisterebbe nella presentazione di un piano con le azioni programmate: a) per la salvaguardia dei livelli occupazionali e gli interventi per la gestione non traumatica dei possibili esuberi, quali la ricollocazione presso altra impresa, le misure di politica attiva del lavoro, i servizi di orientamento, formazione e riqualificazione professionale, finalizzati alla rioccupazione o all’autoimpiego; b) le prospettive di cessione dell’azienda o dei compendi aziendali con finalità di continuazione dell’attività, anche mediante cessione dell’azienda, o di suoi rami, ai lavoratori o a cooperative da essi costituite; c) gli eventuali progetti di riconversione del sito produttivo, anche per finalità socio-culturali a favore del territorio interessato; d) i tempi, le fasi e le modalità di attuazione delle azioni previste. 



4) L’esame: a questo punto entrerebbe in campo una sibillina “struttura per la crisi della impresa” (come ha spiegato Innocenzo Cipolletta, “la nomina di un soggetto terzo con poteri decisionali”), la quale dovrebbe terminare l’esame del piano entro trenta giorni dalla sua presentazione. 5) L’imprimatur: la medesima struttura, sentite le organizzazioni sindacali e l’Anpal, approverebbe il piano qualora dall’esame complessivo delle azioni in esso contenute risultassero sufficienti garanzie di salvaguardia dei livelli occupazionali o di rapida cessione dei compendi aziendali. 6) La licenza: con l’approvazione del piano, l’impresa assumerebbe l’impegno di realizzare le azioni in esso contenute nei tempi e con le modalità programmate e a effettuare le comunicazioni previste. La procedura di licenziamento collettivo non potrebbe essere avviata prima della conclusione dell’esame del piano. 7) Le sanzioni: sarebbero previste pesanti penalizzazioni economiche nel caso in cui l’azienda non presentasse il piano o procedesse alla chiusura nonostante la sua mancata approvazione (ma su questo punto è più vistosa la marcia indietro delle ultime ore). 

Che dire? Staremo a vedere. Ma se non siamo in errore l’economia internazionale si basa sulla mobilità delle persone, dei capitali, delle imprese. Poi c’è il rischio della sindrome di Tecoppa, il “miles gloriosus” che pretendeva l’assoluta passività del suo avversario per poterlo infilzare senza fatica. Noi non siamo i più furbi. Porre vincoli alla mobilità è un’arma a doppio taglio. A un’azione corrisponderebbe una reazione uguale e contraria, perché gli altri Paesi farebbero lo stesso con le delocalizzazioni delle imprese italiane. 

Quando Sergio Marchionne decise di riportare in Italia produzioni e prodotti dalla Polonia, quelle aziende chiusero i battenti “per ragioni non determinate da squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne renda probabile la crisi o l’insolvenza”. Erano aziende sane e produttive che avrebbero continuato a produrre volentieri la Panda. Anche un’azienda sana ed efficiente, tuttavia, può trovarsi in difficoltà per ragioni di mercato, soprattutto se è parte di un gruppo multinazionale costretto a ridurre la produzione o, perché no?, a cercare condizioni più favorevoli altrove.

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