Ieri il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al decreto “Rilancio”. Uno sforzo apprezzabile, a cominciare dal taglio immediato dell’Irap, dice Vito Grassi, presidente dell’Unione industriali di Napoli e di Confindustria Campania, e prossimo vicepresidente di Confindustria. “Una buona boccata di ossigeno per le aziende in crisi, non una risposta strutturale”, dice Grassi, per la quale servirebbe “un vero piano di sviluppo a 30-40 anni”.
La ricetta di Grassi? Semplificazione normativa e amministrativa, investimenti in infrastrutture, riduzione del carico fiscale e contributivo sul lavoro, un grande piano per il lavoro giovanile, ma soprattutto l’eliminazione totale dell’Irap.
Presidente Grassi, ha avuto modo di leggere la nuova bozza del decreto? Le scelte sembrano ormai definite nelle loro linee principali. Qual è il suo giudizio?
A una prima lettura del testo appena approvato, il Dl Rilancio rappresenta uno sforzo apprezzabile da parte del Governo e un passo in avanti importante rispetto al Decreto Liquidità. Confindustria, con il presidente Carlo Bonomi, aveva chiesto il taglio immediato dell’Irap, una tassa estremamente penalizzante per le nostre aziende, senza perdersi nell’inseguimento di una serie infinita di sgravi. Ora il taglio Irap su acconti e saldi di giugno per tutte le imprese con ricavi fino a 250 milioni di euro è un buon punto di partenza, confidiamo che nella prossima legge di bilancio l’Irap venga abolita una volta per tutte. La leva fiscale deve diventare, a nostro avviso, il vero fattore di sviluppo economico del Paese.
Le nuove scadenze fiscali?
Anche lo slittamento al 16 settembre del pagamento di ritenute, Iva e contributi previdenziali, atti di accertamento e cartelle esattoriali e l’aiuto a fondo perduto per le aziende con fatturato fino a 5 milioni di euro rappresentano una buona boccata di ossigeno per le aziende in crisi, non una risposta strutturale.
In che cosa consisterebbe tale risposta?
In un provvedimento di rilancio dell’economia ciò che serve è un vero piano di sviluppo a 30-40 anni, una strategia chiara e indipendente dai governi che si avvicenderanno.
Il vostro auspicio?
Che l’intervento dello Stato sia diretto a ridurre la burocrazia e ad aumentare gli investimenti pubblici in infrastrutture primarie a servizio della collettività. Qualunque ipotesi alternativa di ripresa avverrà senza bussola e, quindi rischia di allargare ulteriormente la forbice di competitività tra i diversi territori.
Il drastico calo del Pil nei mesi del lockdown (-9,5%) rivela già abbastanza chiaramente la drammaticità della situazione. Molto ancora è da capire come inciderà sul fatturato delle imprese il crollo della domanda in settori chiave per il nostro paese come il turismo. Quali sono le sue previsioni?
Sono numerosi gli studi di settore che cercano di prevedere l’andamento del comparto turistico nell’annus horribilis del Coronavirus: dallo studio Demoskopica a quello di Cst per Assoturismo, non c’è dubbio alcuno che le perdite del settore, che vale il 10% del Pil, saranno catastrofiche. Si prospettano da 143 milioni a 260 milioni di presenze in meno rispetto al 2019, per un mancato introito tra i 18 e i 29 miliardi di euro. Ma al di là dei numeri, che non sempre mi appassionano più di tanto, resta la consapevolezza che una ripresa del settore si avrà solo nella primavera del 2021. La peculiare tipologia aziendale italiana e soprattutto del Sud, composta da imprese turistiche e ricettive di piccole dimensioni spesso a conduzione familiare, potrebbe non essere in grado di assorbire e superare una flessione di lavoro così drastica e imponente.
Quali le proposte per invertire la tendenza il più rapidamente possibile?
È opportuno favorire, per quanto possibile e sicuro, la ripresa delle attività nella stagione estiva sia con misure di sostegno economico, sia con azioni mirate alla sicurezza sanitaria, sia con interventi di promozione territoriale. Confindustria Alberghi proprio in relazione al Decreto Rilancio ha denunciato la grave mancanza di interventi strutturali per il settore turistico sollecitando misure per traghettare le aziende almeno fino alla fine dell’anno.
Sembra che il governo si stia orientando per aperture differenziate da Regione a Regione dal 18 maggio, secondo i dati di diffusione del virus. Secondo lei è tutto chiaro come dovremmo comportarci? Servono ancora protocolli più dettagliati o bisogna affidarsi al senso di responsabilità delle persone?
I protocolli sono necessari ma senza il senso di responsabilità individuale verso la collettività che ci circonda, servono a poco. Sul tema della sicurezza siamo passati da un protocollo, quello del 14 marzo siglato in piena emergenza tra Governo, Confindustria e sindacati, ai nuovi aggiornamenti della task force di fine aprile che inaspriscono le misure a salvaguardia di tutti i lavoratori.
E le sembrano misure appropriate?
Mi sarebbe piaciuto trovarvi misure con diagnosi preventive, uniformate e scientificamente riconosciute per mappare e personalizzare il monitoraggio. Per competere sul mercato è necessario salvaguardare la produttività, ma senza la salute dei lavoratori non si va da nessuna parte. Del resto chi fa impresa è abituato a convivere con le incertezze e a ricercare soluzioni ritagliate sulla propria realtà aziendale per fronteggiarle, magari anche con modalità più impegnative delle restrizioni prescritte.
Quali saranno le maggiori difficoltà?
Dall’accesso all’azienda per dipendenti e fornitori alle procedure di sanificazione dei locali, passando per la corretta gestione di spazi comuni, trasferte e riunioni, fino alla rimodulazione dei livelli produttivi e all’interpretazione delle norme: chi riaprirà i battenti o li ha già riaperti si troverà di fronte a un fitto reticolato in cui bisogna imparare a districarsi e occorre farlo in fretta. La ripartenza non deve essere frutto del caso ma di idee, è un’occasione di cambiamento per tutti noi che torniamo al lavoro diversi e possibilmente migliori, innovando le nostre aziende nella tecnologia e nel pensiero.
Il decreto Cura Italia ha ricondotto l’infezione da Covid-19 sul luogo di lavoro a un infortunio sul lavoro. Che cosa ne pensa?
Assimilare l’infezione Covid ad un infortunio sul lavoro, è stato, questo sì, un vero colpo basso al mondo delle imprese che lo ritengono, a ragione, inaccettabile.
Il Mezzogiorno, a meno di sorprese, potrà tra pochi giorni ripartire quasi completamente, salvo le limitazioni previste dalle norme di sicurezza. Quali sono le opportunità che le imprese al Sud dovrebbero saper cogliere?
L’intero Paese e il Sud hanno di fronte una occasione storica che può essere di importanza decisiva per la ricostruzione post–coronavirus. Mi riferisco alla nuova centralità del Mediterraneo che, con il raddoppio del Canale di Suez e l’espansione di colossi come Cina e India, ritorna a essere strategico per gli scambi internazionali. In una riconfigurazione globale delle relazioni economiche, il Mezzogiorno sarà chiamato a essere piattaforma logistica e produttiva per questa proiezione dell’Europa verso Sud. Le Zone economiche speciali, sulla carta, rappresentano una straordinaria potenzialità in questa direzione.
Basteranno gli incentivi fiscali?
No, non basteranno. Serviranno semplificazione normativa e amministrativa, investimenti in infrastrutture con realizzazione di raccordi e connessioni tra porti e aree retroportuali di insediamento. Dovremo promuovere politiche di cooperazione e sviluppo per l’area mediterranea. Per cogliere questa occasione ci sarà bisogno di un impegno unitario da parte dell’intero Paese superando anacronistiche divisioni tra Nord e Sud.
Ci dica un’altra opportunità che il Sud dovrebbe raccogliere.
Sarà rappresentata dai fondi europei legati alla spesa sanitaria: il Mezzogiorno si troverà a gestire nuove risorse con la possibilità di finanziare a basso costo investimenti enormi senza alcuna condizionalità. Sarà l’occasione non solo per aumentare la spesa sanitaria che negli ultimi anni ha subito tagli consistenti, specie nelle aree più fragili del Paese, ma anche per sviluppare e rendere competitivo l’indotto di una filiera, quella della salute, che genera più dell’11% del Pil dell’intera economia italiana.
2,7 milioni di persone percepiscono il Rdc, milioni di partite Iva hanno ricevuto i 600 euro e avranno sussidi nei prossimi mesi, si pensa ad un reddito di emergenza. Non è preoccupato di una deriva assistenzialistica che potrebbe demotivare le persone a battersi per il lavoro e lo sviluppo?
Il reddito di cittadinanza prima, così come l’ipotesi di un reddito di emergenza oggi, rappresentano misure di contenimento contingenti delle tensioni sociali, uno strumento finalizzato a garantire dignità a chi si trova in difficoltà economiche suo malgrado. Da questo punto di vista è un’espressione di solidarietà che va nel verso della riconversione cui è chiamata la società contemporanea nel dopo Covid, secondo l’ordine di priorità dettato dal Santo Padre nell’ultimo Urbi et Orbi universale: etica, cultura, politica. E questa non può che iniziare aiutando le persone più indietro. Sul lungo termine però non può essere considerata una misura esaustiva e rischia di essere anche controproducente, visto che potrebbe allontanare dal mercato del lavoro anziché richiamare persone in cerca di occupazione.
Soluzioni, presidente?
La soluzione ancora una volta deve essere strutturale: vanno adottate con urgenza politiche di sviluppo capaci di risollevare il Mezzogiorno, e con esso l’intero Paese, ponendo al centro l’impresa e la cultura d’impresa. Se veramente bisogna pensare a misure che, incidendo sul lavoro, possano anche dare un forte impulso alla crescita economica del Sud, dobbiamo tornare sull’eterna occasione mancata di questi anni: la riduzione del carico fiscale e contributivo sul lavoro. Se si vuole sul serio aumentare il reddito disponibile e rafforzare la competitività delle imprese, bisogna puntare su un grande piano per il lavoro giovanile. Ma non solo. Bisogna ulteriormente incrementare gli investimenti in formazione, università, ricerca e sviluppo, creando il clima favorevole alla concretizzazione di nuove idee, imprese e business.
Irap, ripatrimonializzazione, intervento dello Stato, ovvero i punti salienti del decreto sugli aiuti alle imprese: che cosa manca? O il decreto va bene così?
Manca sicuramente la semplificazione amministrativa con abbattimento dei tempi necessari per appalti e autorizzazioni. Per accelerare la ripresa del sistema produttivo, oltre al pagamento dei debiti da parte della Pubblica amministrazione, che definirei un obbligo morale dello Stato verso i suoi fornitori specie in un momento di crisi, ritengo necessario sbloccare le opere pubbliche già cantierabili.
Parliamo di cantieri. Un tasto dolente.
Secondo gli ultimi dati dell’Ance la mappa delle incompiute, grandi e piccole, in Italia conta 600 opere per un valore totale di 36 miliardi. L’indotto è tre volte tanto e i posti di lavoro “persi” si aggirano sulle 800mila unità. Solo i cantieri con importo superiore ai 100mila euro sono 27 e, da soli, valgono 26 miliardi, con l’indotto circa 90 miliardi per circa 400mila posti di lavoro. In Campania le opere bloccate dalla burocrazia sono 41, per lo più interventi idraulici di manutenzione di dighe, rete idrica e fognaria: sbloccarle consentirebbe non solo di creare nuovi posti di lavoro ma anche di mettere in sicurezza un paese che cade a pezzi dotandolo delle infrastrutture necessarie. In una fase di recessione quella degli investimenti è l’unica strada possibile per la ripresa.
Il Decreto liquidità (ancora in iter parlamentare) non sta funzionando. Va modificato? Come?
Più che non funzionante, lo definirei una prova evidente di come la complessità delle procedure burocratiche, da un lato mette sotto pressione gli istituti bancari alle prese con modulistiche e procedure nuove e soggette a varie interpretazioni, dall’altro finisce per non cogliere l’obiettivo di un apporto rapido e tempestivo. Si arriva a produrre uno sforzo immane, nello stanziamento di garanzie e nella velocità di promulgazione, per poi trovare comunque tutti scontenti. Si rischia di sprecare uno sforzo a mio avviso senza precedenti, e sarebbe un vero peccato. A più di un mese dall’approvazione di quel decreto, dei 400 miliardi previsti ne sono stati erogati appena il 4%… È ancora lontano quindi l’obiettivo di un provvedimento nato per supportare le imprese immettendo liquidità nel sistema.
Qual è la sua critica, oltre ai tempi?
Al posto di interventi a pioggia di basso impatto, è necessaria come già detto un’azione mirata, diretta e più rapida quale l’eliminazione totale dell’Irap, imposta che grava in maniera pesante sui bilanci di aziende messe in ginocchio dalla crisi, dando così una risposta tangibile al sistema delle imprese.