Quando Benito Mussolini lasciava accese – vox populi – le finestre di Palazzo Venezia per far capire al popolo che il Duce lavorava sempre, “insonne e magnifico”, la gente non era smaliziata, o forse lo era ma veniva fortemente intimidita dai manganelli, e fingeva di crederci. Il senso di una riunione fiume del Consiglio dei ministri, in notturna, conclusa come quella di stanotte alle 4:30, per licenziare niente di immediatamente operativo non può essere così rudimentalmente ma efficacemente propagandistico come le luci accese del Duce: sono passati cent’anni.
Ammesso e non concesso che qualcuno ritenga utile far capire agli italiani quanto quest’esecutivo sia dedito al suo mandato, beh: questo qualcuno ha sbagliato strumento. Perché il Consiglio dei ministri fiume conclusosi stamattina all’alba ha partorito com’era ovvio soltanto un topolino, per di più rachitico, perché sicuramente destinato a spappolarsi nella prassi giudiziaria e giurisprudenziale del nostro Paese.
L’unica norma importante e approvata della riforma per la semplificazione attorno alla quale si sono riuniti i ministri è infatti quella che rende più difficile applicare la fattispecie di reato dell’abuso d’ufficio che fino a ieri frenava molti funzionari pubblici dal compiere non tanto gli abusi quanto il loro dovere.
Ebbene, secondo questa banda di scappati di casa che dovrebbe governarci – si allude anche ai direttori generali degli uffici ministeriali, stante l’assenza di un’azione di governo individuabile – la novità sarebbe stata superare il riferimento alle «norme di legge o di regolamento» che le regole penali sull’abuso di ufficio stabilivano fino a ieri come criterio per capire se un atto era abusivo oppure no (una dizione effettivamente molto larga e “inclusiva”), con una nuova scrittura: sarà punibile per abuso di ufficio chi violerà «specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali residuino margini di discrezionalità».
Colta la sottigliezza? Fino a ieri, poteva essere addebitata dal giudice al funzionario qualunque violazione di norme di legge o di regolamento. Da domani, invece, potranno esserlo solo “specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti….”. Dunque la differenza sta tutta in quell’aggettivo e in quell’avverbio: “specifiche” ed “espressamente”. Secondo il noto assioma per cui in un sistema liberale è consentito tutto ciò che non sia “espressamente vietato”, mentre in un sistema dirigista lo è soltanto ciò che è “espressamente permesso”, la norma ritiene di aver attenuato la morsa delle regole precedenti con queste due paroline.
In realtà, è evidente che siamo alle sottigliezze da accademia della crusca, non da muscolarità inquisitoria. La prassi giudiziaria italiana, in quella percentuale minima dei casi in cui la sua monumentale inefficienza le permetterà di intervenire, sfrutterà tutta la discrezionalità che aggettivo e avverbio lasceranno alle Procure. Quindi prima era certo che il diritto fosse invasivo; adesso il diritto resta invasivo, ma il perimetro di questa invasività è ancora più incerto perché ancor più discrezionale. Si vedrà.
Per il resto, davvero: tutto qui. Per il resto il Governo più pazzo del mondo rimane spaccato su ogni questione qualificante. E si conferma la sbalorditiva propensione del premier Conte a presentare come straordinarie riforme sostanzialmente virtuali o velleitarie o comunque inerti. Già: perché quanto approvato stanotte è tarato dalla maledetta formula del “salvo intese”; è destinato, già negli enunciati, a divenire operativo non prima di fine anno; e lascia in bianco alcuni punti determinanti come l’individuazione delle grandi opere da rilanciare “per 200 miliardi di euro di investimenti” sulle quali la rissa politica tra soci di governo disuniti su tutto sarà più accesa che mai. Soprattutto ricordando che i Cinquestelle vogliono semplicemente stoppare la “cementificazione” dell’Italia e i piddini rilanciarla.
Di semplificante, tecnicamente significativo, nel decreto non c’è nulla. Genericità che non mordono nei 48 articoli del testo. Che fa ossessivamente riferimento al ruolo della Presidenza del Consiglio, come se fosse un superministero, e che – come giustamente rilevava ieri dall’esame della bozza il più competente giurista italiano in materia, Sabino Cassese – diventa il “nuovo collo di bottiglia del sistema, perché la Presidenza del consiglio non è attrezzata per gestire e a mala pena riesce a svolgere il compito di indirizzare l’azione governativa”.
Dunque: non è stato allegato al decreto l’elenco delle opere pubbliche da avviare – una cinquantina – e i commissari cui saranno affidate le più urgenti saranno nominati entro l’anno. Palazzo Chigi rassicura: i nodi coperti dalla formula «salvo intese» riguarderebbero pochi aspetti «tecnici, non politici».
Non è dato sapere i dettagli del “Piano nazionale di riforma” che il consiglio notturno ha intanto approvato: dopo il piano Colao e i vari altri piani delle varie altre task-force, c’è solo l’imbarazzo della scelta tra cose ovvie e cose anche intelligenti (poche). Il dramma sarà riuscire a farle, il dramma nel dramma convincere i soci europei che ci riusciremo.
Tristemente, ieri sera i cronisti nell’attesa del parto notturno rileggevano i dati sull’erogazione di prestiti in Italia nel mese di maggio, quello in teoria della piena espressione del sostegno alla liquidità disposto dal Governo Conte. Ebbene: in Italia la crescita dei prestiti in Italia si è attestata al 2,2% di maggio contro il 2,1% di aprile; in Germania la crescita è stata pari al 6,9%; in Francia, è stata dell’11,4%; in Spagna del 9,5%. Ce la ricordiamo tutti l’enfasi retorica, disgustosa a rileggerla oggi, con cui Conte parlò di “potenza di fuoco”. L’unica domanda legittima è: “Ma non si vergognano”?
Queste cifre illuminano la differenza tra governi problematici ma in buona fede e il Governo italiano. Inutile sprecare aggettivi. Il confronto è semplicemente umiliante.