Sembra che sia finalmente in dirittura di arrivo l’approvazione del decreto-legge “Semplificazioni in materia di contratti pubblici ed edilizia”: questo dovrebbe essere il titolo del decreto al quale, per completezza, occorrerebbe aggiungere “e molto altro”. È da tempo che i governi, sempre deboli nel loro consenso parlamentare, usano inserire nei decreti–legge importanti, sui quali con tutta probabilità sarà posta la fiducia, ogni sorta di norma, spesso di contenuto assai diverso dal tema principale trattato.
Fatta questa doverosa premessa, una prima e sommaria lettura della bozza circolata, ancora non definitiva, lascia la netta sensazione di trovarsi di fronte a una vera e propria, positiva, svolta nell’approccio a molti degli aspetti più critici della Pubblica amministrazione: se la lettura dei molti “codicilli” non svelerà trappole in grado di fermare il contenuto innovativo delle affermazioni più evidenti, potremo dire di trovarci di fronte alla possibilità di realizzare una svolta effettiva nel funzionamento di molti aspetti della cosa pubblica.
Se possiamo cercare un punto centrale, forse possiamo già trovarlo nell’articolo 1 dove si recita “…la mancata tempestiva stipulazione del contratto e il tardivo avvio dell’esecuzione dello stesso possono essere valutati ai fini della responsabilità del responsabile unico del procedimento per danno erariale e, qualora imputabili all’operatore economico, costituiscono causa di esclusione…”. Il temutissimo “danno erariale” è da subito utilizzato al contrario: non chi fa, come oggi, rischia di essere punito, ma chi non fa.
Nel decreto viene quindi affrontata la “sindrome della firma”, cioè la ritrosia dei dirigenti pubblici ad assumere decisioni che li espongono, stante una normativa confusa e variamente interpretata, al rischio di dover rispondere con il proprio patrimonio a presunti danni arrecati alla Pubblica amministrazione. Salvo nel caso del “dolo” (decisione presa nella consapevolezza di essere illegale o dannosa) il vero danno che il dirigente può causare è quello di non prendere decisioni.
Non so quanto il Paese sia pronto a questo cambiamento, indispensabile in tempi di profondi e rapidi cambiamenti, dove la possibilità di sbagliare (Covid insegna) è alta. Le indiscrezioni raccontano di accese discussioni su questo punto, che ribalta uno degli assunti del giustizialismo imperante – “di fronte al rischio di sbagliare, meglio non fare” – trasformandolo in “per evitare il dannoso non fare, meglio perfino rischiare di sbagliare”. Ovviamente, sarebbe meglio fare facendo giusto, ma per questo servono dirigenti capaci, competenti nel merito delle scelte da compiere e non solo esperti delle procedure del diritto amministrativo.
L’importante margine discrezionale che il decreto–legge affida ai dirigenti pubblici, ad esempio riportando agli standard europei le soglie per l’obbligo di assegnare incarichi tramite gara, andrà perciò nel tempo collegato a una più rigorosa selezione dell’esperienza e delle capacità dei dirigenti.
Il decreto limita molto, rispetto alle voci circolate, la possibilità di istituire “commissari speciali”, attribuendo alle amministrazioni gli stessi poteri di deroga alle norme procedimentali che potrebbero essere attribuite, come nel caso di Genova, ai commissari.
Nell’attesa di esaminare con maggior dettaglio i molti aspetti trattati, una domanda sorge spontanea: come reagiranno i cento “feudi”, detentori di un potente potere di interdizione, a una norma che li priva di questa formidabile arma? Per questo occorrerà fare molta attenzione ai “codicilli” e agli emendamenti che dovessero essere introdotti in sede di ratifica. Da sempre in cauda venenum…