Un Governo capace di concepire e scrivere migliaia di pagine per provvedimenti di legge urgenti e necessari – con nomi peraltro non rispondenti ai contenuti – che per dispiegare la propria forza hanno bisogno di centinaia di decreti attuativi non sembra certo vocato alla semplificazione. Eppure il vero terreno di sfida per l’esecutivo presieduto da Giuseppe Conte è proprio questo: trasformare le volontà in azioni verso obiettivi definiti dopo aver sperimentato l’incolmabile distanza che oggi esiste in Italia tra il dire e il fare. E quanto più elegantemente si dice, meno evidentemente si fa.



La forza dirompente del Covid ha fatto cadere molti veli. Come nella favola cinese, il re si è ritrovato nudo nel combattere un nemico impietoso e invisibile almeno quanto i suoi vestiti. E tutti si sono accorti, o hanno mostrato di aver capito, che il Paese è tragicamente malato d’impotenza.

Volere è potere, si diceva una volta. Ma volere, oggi, è un’attitudine velleitaria perché sono stati sabotati tutti gli strumenti attraverso i quali si trasferiscono di norma i comandi perché diventino realtà. Con pazienza e perseveranza si è fatto in modo che nulla funzionasse come avrebbe dovuto.



Ci hanno messo le mani un po’ tutti, dando vita allo sport nazionale dell’interdizione. Cosicché la competizione non è tra chi riesce meglio a sviluppare la sua attività, ma tra chi mette con più eleganza il bastone tra le ruote di quella degli altri. Vince chi paralizza di più. Ed è davvero una bella gara, a vedersi.

Chi non fa, non sbaglia. Se poi riesce a impedire anche agli altri di agire il suo grado di condivisione con lo spirito dei tempi diventa massimo. È la persona giusta al posto giusto. Inamovibile per chiari meriti. Tanto una giustificazione per tenere tutto fermo si trova sempre: un eccesso di zelo, un sospetto di più.



Così regole sempre più strampalate si sposano alla perfezione con comportamenti sempre più deresponsabilizzanti. È l’epoca degli azzeccagarbugli dove tutto e il contrario di tutto si tengono e si negano allegramente. La legge, secondo tradizione, si applica ai nemici e s’interpreta per gli amici.

Quale grado di fiducia si può avere in un contesto del genere è facile immaginare per chi conserva un’indomita (e a questo punto insana) passione per l’intrapresa ben sapendo che non si può continuare a vivere di rendita e che la ricchezza accumulata dai nostri padri di questo passo svanirà.

Chi getta sabbia negli ingranaggi dell’economia – quella reale, fatta d’imprese e lavoratori – è un vero pericolo per la salute pubblica, più del morbo che ha sconvolto le nostre vite. Formare una classe di cittadini più bravi a coltivare il sussidio che a produrre reddito è una scelta miope e scellerata.

Tutti invocano adesso (con quanto sincero trasporto non si sa) una rivoluzione di sistema che corregga le storture. Ma le forze della resistenza, tutti sanno, sono di gran lunga superiori a quelle del cambiamento. E la tendenza a tornare al punto di partenza è una molla formidabile.

Ci vorrà uno sforzo collettivo e condiviso per superare lo stallo nel quale ci siamo cacciati e dove una fetta importante di nomenklatura prospera. Se è vero che la speranza è l’ultima a morire è anche vero che la speranza, per come stanno le cose, si mostra gravemente ferita. Fallire questa occasione vorrebbe dire ucciderla.

Leggi anche

VACCINI COVID/ Dalla Corte alle Corti: la neutralità che manca e le partite aperteINCHIESTA COVID/ E piano pandemico: come evitare l’errore di Speranza & co.INCHIESTA COVID BERGAMO/ Quella strana "giustizia" che ha bisogno degli untori