Pochi giorni fa ho partecipato, insieme ad una delegazione di Confindustria Caserta, ad un incontro con Papa Francesco. Oltre alla travolgente spiritualità che ha contrassegnato l’intera ora e mezza trascorsa in un contesto di assoluta informalità, fra i vari argomenti trattati ha fortemente colpito la nostra attenzione il fortissimo richiamo con il quale il Papa non ha esitato a definire la corruzione un delitto non meno grave di quelli legati alla mafia o alla camorra. Parole, quelle del Pontefice, che d’altronde hanno semplicemente fatto seguito a precise scelte, come quella annunciata poche settimane fa, di dotare la Santa Sede di un nuovo codice degli appalti. Il Papa ha infatti promulgato motu proprio una dettagliata legislazione al dichiarato scopo di contrastare gli affidamenti dei lavori sulla base di conoscenze dirette e la parcellizzazione delle decisioni ente per ente. Tutto per garantire la massima trasparenza e combattere la corruzione, appunto.
Al di qua del Tevere, il governo italiano ha varato l’altra notte il decreto “semplificazioni” che di fatto sospende per un anno il codice degli appalti, ritenuto la causa principale del blocco, francamente intollerabile, che affligge la stragrande maggioranza dei lavori pubblici.
Strade opposte evidentemente vengono percorse dallo Stato Pontificio e da quello italiano, nel pieno rispetto dei Patti Lateranensi. Qualche riflessione va opportunamente ponderata.
La questione è già stata trattata da questo giornale, e una pluralità di voci ha formulato un accorato invito al governo a progettare riforme di sistema e non mere scorciatoie. Da ciò che è dato sapere, a poche ore dalla chiusura del Consiglio dei ministri, sembra che si sia optato, malauguratamente, proprio per la strada delle scorciatoie.
Più di una preoccupazione sorge fra gli addetti ai lavori. Per quanto siamo tutti ben consci della situazione economica in cui versa il paese con gli annessi pericoli sociali, e per quanto non si voglia assumere aprioristiche posizioni critiche, si deve ritenere che la scelta del governo risulta rischiosa e caratterizzata da una certa mancanza di progettualità che, passato il picco della crisi sanitaria, si palesa sempre di più e in molteplici settori.
Qualche settimana fa abbiamo già iniziato a occuparci del tema riportando le proposte formulate dal presidente dell’Anac: oggi quelle idee sono state tutte evidentemente accantonate. La sospensione del codice dei contratti è una opzione che francamente solleva forti dubbi di opportunità. Oltre ai rischi di legalità ed efficienza, occorre ricordare come le regole fissate nel codice degli appalti sono volte soprattutto alla tutela della concorrenza. Come espresso dalla stessa Ance, la concorrenza rappresenta un principio non derogabile, incarnando la tutela più alta per il bene della stessa imprenditoria.
Il termine semplificazione è certamente evocativo ma, come spesso accade, inappropriato. Non pare si semplifichi molto, ma molto invece si deroga e si sospende. Il ponte di Genova, che per molti versi rappresenta il simbolo della possibile rinascita, non può valere come modello, replicabile facilmente in contesti diversi, come d’altronde affermato dallo stesso amministratore delegato del gruppo ex Salini in una recente intervista al Corriere. Al contempo, è utile ricordare come l’esperienza ci abbia insegnato che i commissari straordinari a carattere duraturo non funzionano.
L’Anac aveva indicato una serie di duplicazioni delle attuali norme del codice dei contratti, dichiarandosi disponibile a fornire un contributo ridisegnando complessivamente quanto introdotto dalla normativa degli anni 90 che ha riscritto la struttura delle pubbliche amministrazioni, sul presupposto, ammesso dal suo stesso presidente, del fallimento del codice dei contratti. Quella disponibilità pare sia stata ignorata.
Infine, rilievo più significativo, il varato decreto trascura il vero aspetto centrale ovvero l’attuale scarsa capacità delle pubbliche amministrazioni di produrre progettazioni di qualità. Scarsi gli investimenti sulla qualità della Pa che infatti si scorgono nella bozza in circolazione del decreto. L’attuale assetto della pubblica amministrazione, che non a caso formula continue richieste di inserimento di vincoli alla stessa Anac, palesa costantemente una marcata esigenza di deresponsabilizzazione. Resta il fatto che la Pa non ha le adeguate capacità di far fronte ai propri compiti.
Si può allora dire come allo stato si sia persa l’occasione di procedere verso una rinnovata capacità di progettazione, di elaborazione dati e di sostegno alle scelte che poi la politica viene chiamata a fare. L’impoverimento che lamenta l’intero settore pubblico, compresa ovviamente la sanità, non è casuale, ma il frutto di precise scelte perpetrate con lo scopo di assicurare una più facile eterodirezione delle scelte strategiche. Tale aspetto non sembra in alcun modo preso in considerazione dall’attuale decreto.
Né si è operato verso la riduzione delle stazioni appaltanti, rafforzando ad esempio l’aggregazione fra comuni, piuttosto che lo strumento della vigilanza collaborativa.
Inevitabile, allora temere per la tenuta della legalità, visto l’alto pericolo di infiltrazioni mafiose che sembrano le uniche attrezzate per superare al meglio l’attuale fase storica, non fosse altro per le consuete ingenti quantità di denaro di cui continua a disporre.
Spostando allora il discorso sulla prevenzione, cui il nostro Santo Padre manifesta costante attenzione, viene da chiedersi cosa sarà dell’Anac e del lavoro fatto. Così come inevitabile appare l’individuazione di nuovi strumenti per proseguire la lotta alla corruzione che pare sia stata assai poco spazzata via.
Occorre trovare in fretta un punto di equilibrio fra controlli ed efficienza della Pa, ripensando magari la stessa Anac come una authority che non paralizzi il sistema e che invece sia in grado di controllare, anche in forme di partecipazione di vigilanza collaborativa, le attività legate agli appalti.
La corruzione continuerà a rappresentare un pesantissimo freno allo sviluppo, almeno quanto lo è la mafia. Sempre più di frequente si accerta come le corruzioni importanti siano gestite con modalità mafiose, come ricordava recentemente Catello Maresca. Da qui, allora, prende corpo l’idea di ragionare su una sorta di versione 2.0 dell’Anac, orientata fortemente a prevenire la corruzione mafiosa, sempre più il vero nemico dello sviluppo del paese.