Mentre scoppia (o almeno scoppietta!) la bufera sulla spartizione partitocratica nella nuova designazione del Consiglio dell’Autorità Nazionale Anticorruzione-Anac (Rizzo, L’anticorruzione non c’è più, la Repubblica, 9 agosto p. 28), merita ragionare su un’attività recente del vertice ancora in carica.
Sul sito dell’Autorità appare il 7 agosto una Nota di analisi del decreto legge 76/2020 (in vigore dal 17 luglio) concernente Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale. Date le competenze di Anac la Nota si occupa dei soli contratti pubblici. Dall’analisi emergono molteplici criticità che la conversione in legge del decreto, da effettuare entro sessanta giorni, deve necessariamente valutare. Risultano condivisibili e significativi soprattutto certi rilievi, fra i tanti presentati.
Per prima cosa: dopo il Covid “mozzafiato” occorre dar respiro in economia alla concorrenza sana e regolata. Non lo si fa se, come fa il decreto, si punta su un sistema di assegnazione dei contratti pubblici (di lavori, servizi o forniture) per una fetta molto consistente con criteri certamente semplificati ma improntati a grande discrezionalità. Il decreto dispone infatti che i contratti cosiddetti “sotto soglia Ue”, oggi di valore inferiore a 5,35 milioni di euro (limite sotto il quale l’Ue demanda al singolo Stato membro la scelta sulle procedure da applicare), possano essere affidati secondo due modalità. O direttamente, senza gara, a un operatore economico precisamente individuato, quando il contratto valga meno di 150.000 euro. Oppure invitando a presentare l’offerta un puntuale numero di operatori, variabile secondo l’importanza dell’affidamento, quando il valore di quest’ultimo sia compreso fra 150.000 e 5,35 milioni di euro (cd. procedura negoziata, che è pur sempre senza gara).
C’è da chiedersi se questa obiettiva semplificazione sia in grado di mettere in bilanciamento esigenze di rapidità e tempestività degli affidamenti pubblici con quelle di efficienza, innovazione, trasparenza, competitività e di non discriminazione tra operatori economici, e perfino di legalità, a fronte di episodi gravi e non sporadici di infiltrazione criminosa verificatisi nel periodo della pandemia. La fetta di mercato tanto consistente coperta dagli affidamenti “sotto soglia” – nel 2019 pari al 71/72% del totale – suggerisce che il legislatore manifesti un consistente ripensamento al ribasso dei due “tetti” per favorire concorrenza, innovazione, efficienza, allontanando anche i rischi significativi che ora ci sono di favorire l’aumento della corruzione.
In secondo luogo, il decreto comporta una grande incertezza quanto alle norme da applicare: si tratta almeno di sciatteria di scrittura, non volendo pensar male (perché non si vuol commettere peccato, come invece suggeriva Giulio Andreotti: «A pensar male si fa peccato ma spesso si indovina»). Ciò accade in almeno due situazioni. Anzitutto là dove introduce (art. 2.4) nell’ambito dei contratti cosiddetti “sopra soglia”, quando ricorra l’«estrema urgenza», la facoltà di derogare a ogni disposizione diversa dalle norme penali, dal Codice antimafia nonché dai «vincoli inderogabili derivanti dall’appartenenza all’Unione europea». Poi là dove consente (art. 9) il ricorso a commissari straordinari.
Anac osserva (p. 10 della Nota) che la deroga a ogni disposizione di legge non solo «appare sproporzionata rispetto all’obiettivo di incentivare gli investimenti pubblici», ma impone a chi affida la commessa pubblica «un’attività non agevole per individuare le norme da applicare al caso concreto». Cioè, se è esclusa l’applicazione delle norme dell’attuale Codice dei contratti pubblici (vigente dal 2016, in attuazione delle direttive Ue emanate in materia nel 2014) per la gestione ordinaria di questi ultimi, quali disposizioni possono essere usate? Non certo esclusivamente le direttive europee – di non facile interpretazione e applicazione – perché contengono norme indirizzate ai 27 Stati membri Ue e dunque sono bisognose di una “mediazione” di adeguamento da parte di ciascuno di essi. E poi: una deroga siffatta va nella direzione opposta a quella auspicata dagli operatori economici e dagli enti pubblici, i quali si lamentano continuamente di non avere a disposizione chiare norme vincolanti attuative del Codice: il riferimento ai «vincoli inderogabili» discendenti dall’appartenenza all’Ue è troppo vago. Serve insomma precisione, se non si vuole addirittura dire (sulla falsariga di Andreotti) che «servono regole di ferro, che impediscano abusi e soprusi. Il buon legislatore deve presumere l’empietà degli uomini, non la loro santità. Il cattivo legislatore, viceversa, spara norme un po’ a casaccio» (Ainis, La legge e il peccato, la Repubblica, 11 agosto p. 27).
Quanto a un non condivisibile ricorso generalizzato al sistema dei “commissari straordinari”, si pensi tra l’altro al cosiddetto “modello del Ponte Morandi” (ora S. Giorgio), col Sindaco di Genova commissario straordinario. Esso costituisce un’eccezione non replicabile. Si tratta di una struttura che non ha richiesto programmazione (non c’erano alternative al tipo di opera, al tracciato e al luogo su cui realizzarla: occorreva ri-farla), progettazione (perché regalata dall’architetto Renzo Piano) e sollecitazione alla concorrenza fra imprese costruttrici (perché politicamente costrette dagli eventi e dall’impatto mediatico a mettersi d’accordo; a proposito: non si tratta di un reato? Cioè quello di «turbativa d’asta» di cui all’art. 353 del codice penale?).
Bisogna piuttosto lavorare sull’attuale Codice dei contratti in modo che esso sia esclusivamente attuativo delle direttive Ue: per esempio, diminuendo il numero di procedure (aumentate rispetto a quanto previsto dalle direttive); eliminando dal Codice i limiti esistenti al subappalto; non duplicando – come invece fa il decreto – disposizioni già esistenti (artt. 63 e 163) per le situazioni di urgenza.
In terzo luogo, il decreto solo in alcune norme menziona l’obbligo di garantire la trasparenza amministrativa. Ciò potrebbe far pensare che, là dove non se ne parla, la trasparenza non sia necessaria. Il decreto rischia dunque quanto meno di indurre in errore chi lo applica. È auspicabile che il Parlamento corregga la frettolosità della formulazione accogliendo l’applicazione integrale del principio di trasparenza già disciplinato in senso ampio dal Codice dei contratti pubblici (art. 29). La trasparenza amministrativa è infatti un principio inderogabile del diritto Ue (art. 42 della Carta dei diritti fondamentali) ed è considerata una «fisiologica conseguenza dell’evidenza pubblica», cioè dell’azione della Pubblica amministrazione (Consiglio di Stato: sentenza 10 del 2020). È dunque principio generale accolto dalla disciplina italiana (d.lgs. 33 del 2013), che consente al cittadino di conoscere per esempio quanto costa un’opera pubblica, quanto spende il proprio Comune per consulenze esterne, quanto sia lo scostamento nei tempi di esecuzione di un contratto. Permette di decidere se continuare a dare il voto ai propri governanti.
In ultimo, tralasciando altre criticità, il decreto perde l’occasione importante di prendere finalmente in mano la questione della qualificazione delle “stazioni appaltanti”, cioè dell’ente pubblico che acquista servizi, lavori, forniture (oggi le “stazioni” sono circa 36.000!). L’obiettivo di ridurle a circa 3.000 implicitamente sta già, ignorato, nel Codice dei contratti pubblici (art. 38.2) in connessione con le esigenze, trascurate, della loro sempre maggior qualificazione. Ora la sfida è di professionalizzare al massimo riducendo al minimo il numero di questi enti. Se non lo si vuol fare, almeno si segua la via, suggerita dall’Anac il 27 maggio scorso, di investire risorse pubbliche sul miglior adeguamento professionale (e correlata ampia digitalizzazione) solo di alcune stazioni appaltanti, così da porre in capo a molti meno soggetti la competenza a svolgere le funzioni di acquisto di lavori, servizi o forniture.
Il cittadino dovrebbe comprendere che risponde a esigenze di efficacia ed efficienza, per esempio, che il proprio piccolo Comune di residenza programmi e metta a bilancio un’opera, ma lasciandone la cura dell’affidamento e dell’esecuzione a una stazione appaltante più grande (con più dipendenti, quindi maggiori competenze tecniche, e adeguata digitalizzazione). Inoltre, bisognerebbe procedere all’attività di periodica valutazione della performance dell’azione pubblica settore per settore (registrando efficacia, efficienza, economicità sia dell’organizzazione del singolo ente, sia delle persone che lo compongono). Un tentativo di valutazione in questo senso si trova ad esempio in Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali), punto di raccordo tra livello centrale, regionale e aziendale nel settore dei servizi della sanità. Un altro tentativo è di Fondazione Etica (ente del Terzo settore) che, tramite un indicatore denominato “rating pubblico”, valuta e misura integrità e performance delle Amministrazioni Pubbliche locali e nazionali.
L’art. 8.5 del decreto non sembra in linea con questo obiettivo, e nemmeno con lo scopo di semplificare, anzi appesantendo, le procedure di affidamento.
Un aspetto positivo del decreto è evidente, ma va valorizzato maggiormente dal Parlamento in sede di conversione: l’uso delle piattaforme telematiche per avviare verso la piena digitalizzazione la Pubblica Amministrazione italiana. L’ultimo rapporto della Commissione europea situa il nostro Paese al 25° posto (su 28 Stati e in discesa di due posizioni rispetto al rapporto del 2019) nel grado di digitalizzazione dell’economia e della società (giugno 2020/statistica DESI), e al 19° posto quanto al livello di digitalizzazione della Pubblica amministrazione. Il legislatore dovrebbe “aprire” a un serio investimento di risorse anche finanziarie nella Pa italiana per la sua digitalizzazione: Mes e Recovery Fund sono due strumenti strategici, andando a integrare il quadro finanziario pluriennale Ue (2021-2027) che dovrà essere approvato dopo l’estate.