I numeri chiave sono presto detti: 11 miliardi di euro all’economia reale materialmente distribuiti entro aprile. E 32 miliardi, provenienti dalla gestione del precedente governo, che non bastano, ne serviranno altri, e senza remore, perché è il momento di fare debito, non di esitare. Sul primo impegno – distribuire realmente i sostegni alle imprese e, per la prima volta seriamente, anche ai lavoratori autonomi, Mario Draghi e il suo governo si giocano una gran parte della loro forte credibilità. Sulla seconda promessa, spendere ancora, Draghi vince facile: il debito pubblico, i mercati finanziari internazionali, sono la sua materia, come lo è quel Patto di stabilità dell’Unione Europea che naturalmente andrà rivisto nelle sue regole, come sarà interesse di tutti, perché tutti gli Stati membri stanno incrementando il loro debito: “Quest’è un anno in cui non si chiedono soldi, si danno soldi. Verrà il momento di riparlare del debito, ma non è questo il momento di pensare al Patto di stabilità. Le regole del Patto verranno discusse ma mi pare difficile che restino uguali dopo quello che è successo”.



Oltre questi numeri, la prima volta di Mario Draghi in conferenza stampa ha segnato un salto quantico rispetto all’Hellzapoppin’ al quale ci aveva abituato Giuseppe Conte. 

Il premier risponde punto per punto a tutte le domande – in qualche caso, valorosamente anche aggressive –, cerca nella sala con lo sguardo il giornalista che gliele aveva formulate ripetendo “dov’è”, quasi per rispondergli meglio guardandolo, e smorza gli attacchi sul nascere. Anche sui temi più spinosi, che non sono quelli delle complesse cifre dei nuovi sostegni ma, naturalmente, quelli della campagna vaccinale. L’Italia ha sospeso Astra Zeneca per assecondare gli interessi tedeschi? Macché, replica Draghi, accentuando con lievissimo intento caricaturale la ripetizione dell’espressione “interessi tedeschi”. Fa capire senza mezzi termini che i governi si sono trovati di fronte a una marcata ambiguità dell’Ema, che da un lato giudicava valido il vaccino e dall’altro rivendicava una settimana di tempo per svolgere ulteriori accertamenti. E a chi gli chiede come valuta l’apertura della Merkel all’impiego del vaccino russo Sputnik risponde ricordando l’obbligo del pragmatismo e confermando che anche l’Italia potrà decidere in proprio se l’Europa non raggiungerà una decisione univoca.



Nel primo contesto dialettico pubblico su temi concreti, affiora dietro l’aplomb britannico la dialettica gelida e tagliente del grand commis di Stato sopravvissuto in 11 anni a nove governi diversi nella poltrona burocratica di maggior potere, la direzione generale del Tesoro, dirigendo l’orchestra di ben 180mila miliardi di privatizzazioni per controvalore – la massima campagna svolta in Europa – per gran parte svendute (col senno di poi) ma all’epoca indispensabili per agganciare il risultato voluto, l’ingresso della lira nell’euro sin dalla sua prima fase di costituzione. È  sopravvissuto ad ogni sorta di imboscate, Mario Draghi, per non sapersi districare in questi giochini da salotto; per non parlare delle cannonate che ha dovuto schivare a Francoforte, quando la Germania del ministro Schäuble e la Bundesbank di Jens Weidmann lo volevano buttar fuori dalla Bce.



Arriva anche la domanda politica, sulle nuove intemperanze della Lega che chiedeva a gran voce misure più ampie e indifferenziate per il maxicondono delle dieci milioni di cartelle esattoriali. “Ognuno porta con se l’eredità dei programmi e dei valori identitari che lo accompagnano, ed è normale che li rivendichi”, riconosce, con l’aria asettica e serena di chi sottintende: “Poi, alla fine, però, decido io”. E la rasoiata sul passato burocratico paralizzante che frega oggi l’Italia: “Uno Stato che permette l’accumulo di milioni e milioni di cartelle esattoriali che non si riescono ad esigere, be’, insomma: bisognerà cambiar qualcosa”.

Lo salva dalla stravittoria – o l’arricchisce: punti di vista – il guizzo d’ironia di quando risponde alla domanda se le enormi attese concentrate sulla sua azione non lo stressino troppo: “No” dice imperturbabile “mi auguro solo che le delusioni non siano, un domani, anche superiori alle attese”. Very british. Come pure la risposta sulla durata del suo governo, educatamente formulata per non chiedergli sfrontatamente se è già d’accordo con i partiti della coalizione per sostituire Mattarella al Quirinale tra 11 mesi: “Sulla durata del governo decide il Parlamento e soltanto il Parlamento”.

La vera domanda che nessuno formula è se ha senso, con tutti i problemi che ha il Paese, bruciare in un massimo di 22 mesi (ammesso che non scatti l’opzione Quirinale) l’esperienza di un governo guidato dal primo presidente del Consiglio dalla vera leadership internazionale che l’Italia abbia avuto sicuramente negli ultimi 25 anni, da D’Alema escluso in poi. Ma forse a questa domanda Draghi non avrebbe risposto.

Resta quella scadenza impegnativa, la fine di aprile per distribuire al Paese 11 miliardi. Non è mai successo: per essere sicuri di riuscirci, ci sarebbe voluto un vaccino contro la burocrazia. Importante quanto l’altro. Ma per ora a Roma nessuno l’ha somministrato a nessuno.

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