Douglas ha un padre violento, un fratello complice e compiacente, una madre terrorizzata e pronta alla fuga. In questo fragile contesto familiare in un’America ignorante e bigotta, il piccolo Doug cerca conforto nell’affetto dei suoi cani, allevati, usati e vessati dal padre per stimolarne l’aggressività, utile a guadagnare denaro nel mercato sotterraneo dei combattimenti. Quando un giorno viene scoperto a coccolarli, viene rinchiuso per sempre nella loro gabbia. Sarà l’inizio di una nuova vita, fatta di privazioni, che lo segnerà nella mente e nel corpo, fino all’età adulta.



Un po’ Joker, un po’ La carica dei 101, Dogman (il titolo è lo stesso di uno dei più bei film di Garrone) ci porta a esplorare le profondità dell’anima ferita di Douglas, un bambino cresciuto troppo in fretta, vittima della violenza di un padre aguzzino così eccessivo da sembrare un personaggio di fantasia. E un poco irreale è pure il buon Doug, ragazzino selvatico per necessità, poi pastore e protettore di cani, ma anche trans a tempo perso e vendicatore di quartiere on demand.



Una vita complicata, anzi complicatissima, che lo rifila nel girone dei dannati, anzi dannatissimi. Un odio profondo per l’essere umano, naturale reazione alla prigione familiare e un amore infinito per i suoi cani, la sua vera famiglia.

Il racconto a ritroso, che Douglas spataffia con minuzia di particolari alla psicologa della prigione nella quale è pronto a marcire, costruisce la struttura portante del film che va alla ricerca delle dolorose ragioni della sua depressione, della sua confusione e della sua inevitabile caduta nel crimine. Un po’ come Joker, che in fondo è diventato l’antieroe di Batman perché non poteva esser altro che un violento emarginato per spirito di sopravvivenza. In fondo, ci ricorda il film, siamo tutti “quello che ci è successo prima”.



Ma Dogman non è in realtà un film di supereroi, ma un racconto di realtà liberamente fantasioso. Come quando i suoi amati cani, addestrati dall’amore del padrone, seguono le istruzioni a delinquere con magica efficacia. Un po’ carica dei 101. Ed è qui che il film straborda ancora un po’ verso la favola ingenua, dove tutto si riduce a buoni e cattivi. Non era questa, certamente, l’intenzione di Luc Besson, tra i grandi campioni del cinema spettacoloso francese, coprodotto americano. Ma il risultato sa di bambinesco, nonostante i momenti duri, violenti, emozionanti che si incrociano con gli eventi.

La morale del film, nella visione disperata del mondo di Douglas, è che i cani sono migliori degli uomini. Un’affermazione sempliciotta, che a ben vedere potrebbe pure raccogliere seguaci, pronta ad animare uno sfizioso dibattito su Facebook. Ma suvvia, nonostante il grido del mondo, non è tempo di così facili e imperfette generalizzazioni.

C’è dell’altro in questo film? Qualche rado e buono spunto e una forte domanda di umanità in un film tutto sommato trascurabile di eroi animali e di antieroi animaleschi.

Cale Landry Jones, nei panni di Douglas, è strepitosamente credibile. Ma lo è meno il suo contorno, con personaggi scheggiati, disegnati per i fumetti, pilotati da una storia in fin dei conti inverosimile.

Dogman è un film di bestie, manifesto povero e superficiale di un’umanità sofferente. Un film visivamente impeccabile, con un po’ di dramma sociale, un accennato fanatismo religioso, un ritmo frenetico e un paio di lacrimevoli riflessioni sulla vita.

“Ovunque ci sia un infelice, Dio manda un cane” scrive Lamartine, citato all’inizio del film. E Douglas di cani ne ha cento. Immaginate il dolore…

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