Il fenomeno dei rave party – come il raduno che doveva tenersi a Modena – merita considerazioni di ordine politico, legale, di sicurezza. Ma anche esistenziale, culturale, educativo.
“Ci sballiamo fino a sfinirci!” è la risposta più citata dai giovani partecipanti alla domanda “perché lo fate, cosa vi interessa?”.
E’ davvero lo sballo, solo e tanto lo sballo che cercano? Non colpisce altrettanto e di più la grande ricercata liturgia che sta all’origine e intorno alla consumazione finale, al raduno?
La convocazione, ad esempio. Si autoconvocano, anonimamente, si chiamano, tanto tempo prima, si danno convegno da tutta Europa, senza apparente motivo, tanto è grande il bisogno di stare insieme, di esserci, di fare: qualsiasi cosa, purchessia. Arrivano da ogni dove, di tante età, uomini, donne, ragazzini, alcuni poco più che bambini. Giungono a gruppi, occasionalmente costituitisi lungo il cammino, rigorosamente sporchi, trasandati, trascurati, ricercatamente brutti, abbandonati, lenti, silenziosi, occhi bassi, trascinano i piedi, malvestiti, mezzi nudi, privi di un’origine, anche senza documenti, senza una meta successiva.
E’ un esodo, vuole essere, apparire un esodo. Da che paese scappano e perché non desiderano giungere in nessun altro? Dunque sono profughi (il campo profughi più vasto e drammatico dell’Italia e dell’Europa è la gioventù).
Persone in fuga, appunto profughi. Da quale mondo fuggono, da quale sconosciuto e misterioso pianeta vogliono andarsene? Da quali famiglie, scuole, parrocchie, quartieri, città, così rovinosamente, hanno deciso di allontanarsi queste migliaia e migliaia di ragazzi?
Quale e quanta insensatezza, inconsistenza, disimpegno, assenza, colpevolezza, tradimento, rinnegamento dei genitori, degli insegnanti, dei preti, delle società, degli Stati questi ragazzi vogliono dimenticare?
Dimenticare, sì, con fiumi di alcool e droga, con l’ausilio di una musica assordante e ottundente, con tanto sesso purché smodato, occasionale, aggressivo, e – non ultimo, guarda caso – in un luogo deliberatamente, assolutamente brutto, sporco, rovinato: un capannone dismesso, diroccato, cadente, senza porte e senza finestre, dove per giorni e giorni, sempre negli stessi spazi, si mangia e si beve, ci si droga, si dorme, si fa sesso, non ci sono gabinetti, in mezzo all’immondizia. Perché proprio in luoghi siffatti? Per dimostrare cosa? Per lanciare quale messaggio?
“Ci sballiamo fino a sfinirci!”. Ormai l’accento, l’attenzione non va più posta sullo sballo, ma sull’ultima parola: sfinirci. “Vogliamo sfinirci, cioè vogliamo, abbiamo deciso di finire, di terminare, di concludere. Di farla finita”.
Perché i nostri ragazzi si immolano? Tanto e a tanto? A chi e a cosa hanno deciso di offrire la loro vita, così fino alle estreme conseguenze? A chi, a cosa danno il loro cuore, come fosse l’ultima volta, l’ultimo giorno? Che dramma sanguinante ed epocale, inedito, che sacrificio è mai questo? A che Dio innalzano e lanciano il sacrificio che offrono a nome di tutti noi, di tutto il mondo?
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