Nel marasma di commenti, attacchi, polarizzazioni politiche più o meno sensate in merito alla liberazione e conversione all’Islam della giovane volontaria Silvia Romano, c’è una voce che si erge umile e non banale rispetto alle altre ed è quella di un altro sequestrato (in Siria, nel lontano 2013 ormai) che di professione fa il giornalista e scrive su La Stampa. È Domenico Quirico che con due articoli e un breve ma intenso passaggio televisivo ieri nel commentare l’arrivo di Silvia a Ciampino è riuscito a dettare, in maniera come al solito molto umana e non “retorica”, i punti principali e i dubbi che si ergono nella difficile vicenda attorno ai 2 anni di prigionia che la 24enne milanese è stata costretta a subire. «Tornare alla libertà dopo il buio di un sequestro: la felicità di quelli che ti stanno intorno non ti entra dentro. Si ha l’impressione di essere svuotati, mentre i ricordi della prigionia sfumano», spiegava ieri a Rai News24 mentre osservava l’arrivo di Silvia Romano nella tenuta verde islam con il velo a conferma della sua conversione. Nello stesso tempo oggi il giornalista inviato di guerra torna alla testimonianza già compiuta anni fa dopo la sua liberazione e prova a leggere la vicenda di Silvia Romano con gli occhi di quel terrore: «libertà lasciata dai rapitori a Silvi? […] In una dimensione che, non bisogna dimenticarlo mai, è quella della violenza, del ricatto».



QUIRICO E LA CONVERSIONE “FORZATA”

«Siamo obbligati al pudore davanti a storie come queste», continuava a ripetere Quirico ancora ieri, prima della ammissione di conversione all’Islam della bella ragazza di Milano: un pudore che va oltre le “schermaglie” e le giuste domande da porsi su cosa c’è stato in quella liberazione (se era lieta e “libera” con i propri carcerieri, perché non ha voluto rimanere in Somalia e anzi si è precipitata ad abbracciare la propria famiglia?). Un pudore infinitamente umano che prescinde ogni polemica, senza però – e qui sta la non banalità del ragionare di Quirico – rifiutare di dare un giudizio sulla vicenda. «Nulla di quello che accade all’interno del percorso di un sequestro è pienamente volontario», occorre sempre ricordarlo dice Quirico pur senza accusare né Silvia Romano né chiunque faccia una scelta, come la conversione all’Islam, non accettata da parte dell’opinione pubblica.



A conclusione dell’articolo di oggi su La Stampa, è ancora Quirico a far capire che si può avere compassione e rispetto di Silvia Romano pur ribadendo quanto di ostile e violento vi sia in un sequestro di criminali jihadisti: «Sei debole, senti mancarti il terreno sotto i piedi, precipiti verso il fondo del trabocchetto, non sai neppure tu come ti devi chiamare. (…) Poi viene la proposta di pronunciare la preghiera, la dichiarazione di fede. Ma l’idea di mentire, del prendersi gioco dei tuoi carcerieri, salvarsi con la riserva mentale, ingannarli? Sarebbe lecito, in fondo. Pensiero che partorisce la notte. (…) Cerchi la via di scampo. E se fosse proprio in questo Dio in cui credono di credere i carcerieri? (…)». Quirico racconta di ben conoscere il “rito” di quell’offerta di conversione perché lo ha vissuto anche lui: «Comincia con una proposta, gentile: quella di cambiare identità, di assumere un nome musulmano. Allucinante complessità del fanatico. (…) Non gli basta tenerti in pugno, barattarti per denaro. Vogliono la tua resa, la tua anima, salvare un miscredente dal peccato, portarlo alla vera fede. (…) Poi lo si potrà vendere, sfruttare, possedere. Senza rimorso».



E così, pur rimanendo in quel pudore di rispetto per la vita e l’intimità di una ragazza sequestrata per quasi 2 anni, Quirico si pone la domanda forse ineludibile per capire meglio quella conversione: «Chi esce da un rapimento ha soltanto la sua memoria, l’esser rimasto vivo, i gesti che ha compiuto o non ha compiuto in una dimensione che, non bisogna dimenticare mai, è quella della violenza, del ricatto. Se gliela rifiutiamo questa memoria, qualunque sia, ditemi: che cosa gli resta?».