Ho sentito nominare don Giussani a scuola, da un insistente compagno che mi invitava ad andare a recitare le lodi con un gruppetto di amici. Poiché aveva buoni uffici in un sacerdote che stimavo, ci andai, riluttante. E iniziai a seguire questo sparuto gruppuscolo di indomiti che avevano il coraggio di affiggere manifesti in bacheca, appannaggio esclusivo dei grandi del collettivo, anche se allora non si chiamavano così. Passione per la realtà.



Parlavano di questo prete lombardo che aveva fondato un movimento, una storia lunga che non conoscevo, ma non era un guru o un capopolo, ne parlavano come di un amico, un maestro.

C’erano con e intorno a lui tanti sacerdoti, e tutti “carismatici”, in gamba insomma, liberi, capaci, colti, brillanti, disponibili. Nessuno pensava di idolatrare il piccolo prete brianzolo, che non portava già più la tonaca, che parlava alto e basso ad un tempo, che spalancava il mondo e la possibilità, inedita in quegli anni, di non soffrire quel complesso di inferiorità nei confronti di una cultura appaltata esclusivamente al Pci.



Da quell’uomo e dai suoi amici ho imparato a conoscere i grandi del pensiero cristiano, che ci suggeriva di leggere, nonostante i nostri giovani anni: Péguy e Claudel, Bernanos, Lewis, De Whol e testi ben più complessi come i samizdat che ci arrivavano ciclostilati da oltrecortina. Ricordo Il potere dei senza potere di Havel come un libro chiave nella mia iniziale elaborazione di idea politica di libertà.

Ho imparato da don Giussani ad amare il greco e il latino, per meglio comprendere i testi sacri, e per questo ho scelto di studiare filologia classica all’università. En arké èn ò lògos, e studiare Giovanni e Marco in greco era controrivoluzione clandestina. Ho imparato da don Giussani e dai suoi amici che la storia e la filosofia dipendono da dove le studi e come le racconti. Che anche se hai 18 o vent’anni non è detto tu debba chinare la testa e accettare il pensiero dei più. Che puoi essere orgoglioso e lieto di essere cattolico, e non farti perculare perché “vendi la testa al papa”.



Ho imparato che la storia della Chiesa è affascinante, grandiosa, maestra, e se non la conosci non comprendi la letteratura e l’arte, la cultura popolare e non. Ho imparato ad amare i canti, non solo quelli dei cantautori, ma anche quelli degli alpini e delle tradizioni regionali che mio papà del resto ci aveva insegnato da piccoli, camminando in montagna.

Ho imparato a camminare ancora, anche da grande, un passo dopo l’altro agognando la meta, ma attenti ad ogni particolare sulla via, in silenzio, in compagnia, seguendo chi guida. La montagna come metafora di tutta la vita.

E poi la lettura dei giornali, e di quel giornale corsaro, Il Sabato, che mi ha permesso leggendo e scrivendoci di incontrare con l’orizzonte più largo Testori e Luzi, Congdon e Pasolini… Ho imparato a non aver paura, anche quando ci buttavano a terra i banchetti con i volantini contro l’aborto, o ci pestavano a terra nel fango le copie di Litterae communionis, il mensile che ora si chiama Tracce, fuori dal portone dell’università.

Ho imparato a dubitare e chiedere, fare continuamente domande, e paragonare quel che vivo con quel che credo e mi è insegnato e proposto come strada per me. A capire che rosari e litanie e canti in latino non sono cose da vecchie liturgie ma vive e vitali attestazioni di fede, vigore per il cammino.

Ogni mercoledì si partiva in viaggio per il Pontificio istituto missioni estere, dove il Gius faceva lezioni sui suoi temi, sui suoi testi. Nessuna idolatria, ripeto, delle sue parole, sempre nuove, sempre aderenti alla realtà, alle sue urgenze.

Ho bevuto con lui sulle montagne del Trentino, un buon bicchiere dopo una gita sulle cime, la Messa e le chiacchiere a cena. L’ho visto sbattere i pugni sul tavolo, adirarsi e chiedere scusa, sbaraccare pregiudizi e incomprensioni e strutture e sorridere abbracciandoti con lo sguardo e penetrare il tu con acutezza e foga incomparabile, con la parola giusta, essenziale e severa, detta con la sua voce roca.

L’ho visto vecchio e tremante inginocchiarsi davanti a un gigante, il più grande e giusto mai conosciuto, che si inchinava per abbracciarlo. Questo è don Luigi Giussani, un prete. Un educatore, un  maestro. Ho imparato da lui a recitare ogni giorno l’Angelus, e a ripetermi, quando sono più fragile e incerta, “io penso che non potrei più vivere, se non Lo sentissi più parlare”.

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