Nel 1938 i chimici Otto Hahn e Fritz Strassmann scoprirono che il bombardamento dell’uranio con i neutroni produce il bario, un elemento che pesa poco più della metà dell’uranio. Il risultato a cui giunsero fu tanto inspiegabile quanto evidente. Si succedettero settimane di studi e conversazioni frenetiche, in particolare quella tra i fisici austriaci Lise Meiter e Otto Robert Frisch, in seguito alla quale venne pubblicato il lavoro in cui chiamarono il fenomeno in questione “fissione nucleare”.
La spiegazione della Meiter e di Frisch mostrò quello che, pur essendo sotto gli occhi di tutti gli studiosi, nessuno era riuscito a dipanare, tanto che, quando Frisch aggiornò Niels Bohr sugli ultimi sviluppi, il già Premio Nobel danese esclamò: “come abbiamo potuto non rendercene conto per tanto tempo?”.
Quello che stupì Bohr non fu solo il risultato, ma l’esplicazione della dinamica di ciò che avevano visto. Come è stato possibile non vedere qualcosa di così chiaro, ma che senza porre la giusta attenzione resta inespresso, non conosciuto? Il problema che l’esclamazione di Bohr rivela è un problema conoscitivo, è il problema di riuscire a leggere davvero quello che succede davvero.
Come la ricerca di Meiter e Frisch per Bohr, così l’incontro con don Luigi Giussani è all’origine di ciò che mi apre gli occhi. La sua vita mostra un uomo le cui parole e i cui pensieri sono figli della riflessione su ciò che ha visto. È questa trasparenza tra realtà (quello che c’è intorno), esperienza (quello che si vive) e conoscenza che mi farebbe venire voglia di conoscerlo vis-à-vis e chiedergli: come fai?
La realtà di cui gli invidio maggiormente l’esperienza e la conoscenza è quella dell’io. Negli anni della contestazione giovanile che culminarono con il Sessantotto, Giussani assistette al crollo di tutto ciò che fino a poco prima aveva visto fiorire. Nel contesto di quella vicenda storica affermò: “veramente siamo nella condizione d’essere all’avanguardia, i primi di quel cambiamento profondo, di quella rivoluzione profonda che non starà mai – dico: mai – in quello che di esteriore, come realtà sociale, pretendiamo avvenga; [infatti] non starà mai nella cultura o nella vita della società, se non è prima […] in noi” (A. Savorana, Vita di don Giussani, p. 392).
O si tratta di una ingenuità, o si tratta di una proposta intimistica, o si tratta di accontentarsi di qualcosa di vero, ma parziale, oppure emerge una concezione dell’io che è rivoluzionaria. Che cos’è l’io per essere il punto realistico di ripartenza, sempre e comunque?
Di recente, in una mia classe c’è stata una discussione sul romanzo La Strada di Cormac McCarthy. Si tratta della storia del cammino di un padre e un figlio lungo una strada; è ambientata in un mondo apocalittico e desolato, con la frequente incursione di esseri umani cattivi che compromettono la speranza del figlio, tenuta viva dal fuoco.
Chiedevo ai miei studenti cosa avrebbero fatto se fossero stati il Dio de La strada: avrebbero cambiato il mondo mettendo i buoni oppure l’avrebbero lasciato devastato, con i cattivi e il fuoco in mano ad un paio di persone (come, di fatto, è nel romanzo)? “Un mondo pieno di buoni, ma senza il fuoco?”, chiede acutamente un alunno. Sì. “Senza dubbio: un mondo devastato, ma con uno con il fuoco”. Insisto: “sei sicuro?”. “Sì, perché se uno ha il fuoco può accendere il mondo”.
Ho rivolto la domanda anche a me stessa e avrei risposto sinceramente come lui, se non fosse che capita di approcciarsi ad alcune situazioni sperando che si risolvano in modo rapido e indolore, che qualcuno rinsavisca, che il contesto cambi, che la propria reazione passi, eccetera. Insomma, ci si immerge nell’alibi auto-giustificato di pensare che “sarebbe meglio un mondo pieno di buoni”.
Il problema non è l’affacciarsi o il finire in questo alibi, ma se la risposta dell’alunno non è un’ingenuità adolescenziale, figlia dell’entusiasmo giovanile destinato a scemare per far spazio a problemi più concreti o rischi più pericolosi; se dunque la risposta dell’alunno è vera, cosa dice dell’io?
Giussani può condurre all’auspicabilmente propria scoperta che l’io non è un termine ultimo autoreferenziale e autodeterminato, ma è la prova della sua creaturalità: non può, infatti, sussistere altrimenti. È la prova, dunque, di qualcosa che lo origina e genera ed è questa la sua natura. L’io è la prova dell’esistenza di chi lo fa, per questo è un punto di partenza inesausto e inesauribile. Altrimenti, sarebbe come considerare una presa di corrente non in tensione: perde la sua capacità, non funziona.
Per questo vorrei incontrarlo vis-à-vis, perché vivere con la concezione dell’io che lui comunica cambia sensibilmente la vita: si sta meglio con se stessi e con gli altri. Vorrei incontrarlo vis-à-vis per poter attingere alla sua sapienza, perché, come dice lui stesso, approfondendo la propria natura “uno incomincia a toccarsi alla mattina le spalle e sentire il proprio corpo più consistente, guardarsi nello specchio e sentire il proprio volto più consistente, sentire il proprio io più consistente e il proprio cammino tra la gente più consistente, non dipendente dagli sguardi altrui, ma libero, non dipendente dalle reazioni altrui, ma libero, non vittima della logica di potere altrui, ma libero” (Ivi, p. 412).
Luigi Giussani potrebbe essere una personalità interessante del passato, ricca di spunti stupefacenti e che si sogna un giorno di poter incontrare faccia a faccia per poter chiedere tutto ciò che si sarebbe voluto sapere, ma che non c’è stato modo di conoscere.
Tuttavia, capita di incontrare chi ti attira e di fronte a cui percepisci che c’è dell’altro, perché è qualcuno con cui succede sempre qualcosa di profondo ma non cupo, pacificante ma non parziale, qualcosa di irriducibile a qualsiasi pregresso, teoria, conoscenza data per assodata, qualcosa che infonde una gioia e una voglia inaudita di vivere la propria vita e il proprio essere.
C’è qualcuno che, vivendo, trasmette quello che ha: una unità della vita che dà freschezza e che fa dire “è possibile anche per me”, e se vuoi vivere così, ti indica instancabilmente Giussani, non come un refrain, ma come un padre che mette nella condizione di poter scoprire se stessi e la pertinenza del cristianesimo alla propria natura.
E così sorprendi che la fede non è una consolazione psicologica o una tradizione da conservare, ma la conseguenza non meccanica ma leale dell’incontro con un uomo vivo, fonte di una novità di vita calamitante che fa sobbalzare: “non ho mai visto nulla del genere”. C’è chi con cui vedi che accade un “‘ciò’ che fa diventare realtà viva la tradizione, che fa diventare realtà viva l’articolazione del pensiero, che fa diventare vivente ciò che è passato” (L. Giussani, Una rivoluzione di sé. La vita come comunione 1968-1970, p. 44).
Lo scrittore romano Aulo Gellio riporta che Filippo, re di Macedonia, scrisse così ad Aristotele annunciando la nascita del figlio Alessandro: “ritengo di dover rendere grazie agli dei non solo perché [mio figlio] è nato, ma perché gli è toccato di nascere nel tempo della tua vita” ( A. Gellio, Noctes Acticae, XI, III.). A me non è toccato di “nascere” nel tempo della vita di Giussani – mi sono imbattuta in lui anni dopo la sua morte –, ma la sottoscrivo pensando a chi mi è padre, e che trova l’origine della sua generazione in Giussani.
Per questo, in realtà, lo incontro vis-à-vis.
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