Dopo 15 giorni di guerra, con la popolazione ucraina che cerca di fuggire dalle città bombardate, i russi sono arrivati ormai alle porte di Kiev, dove si combatte nelle periferie, e hanno conquistato Mariupol. Ma per il generale Fabio Mini, già capo di stato maggiore del comando Nato per il Sud Europa e comandante delle operazioni Nato di pace in Kosovo e oggi commentatore di questioni geopolitiche, non è “in arrivo un’offensiva generale su tutte le città dell’Ucraina”, perché Putin si è preparato a una guerra lunga, come dimostra la presenza sul campo di forze soprattutto convenzionali.
Intanto in Turchia, ad Antalya, si è tenuto un incontro fra i ministri degli Esteri russo, Sergej Lavrov, e ucraino, Dmytro Kuleba, che non ha purtroppo prodotto risultati né tanto meno è riuscito a concordare un cessate-il-fuoco. Un esito scontato, osserva Mini: “Le trattative su qualcosa di più sostanziale sull’Ucraina potrebbero semmai saltar fuori dai colloqui riservati fra i vari leader internazionali”. E aggiunge: “La vera gran bella notizia ci sarà quando al tavolo del negoziato Russia e Ucraina si siederanno non con l’elenco delle richieste che ciascuno vuole, bensì con le proposte su ciò che si è disposti a cedere”.
“L’operazione speciale va secondo i piani”, ha detto Lavrov. I russi si sono preparati a una guerra lunga?
Penso di sì, anche perché vedo sul campo forze sostanzialmente convenzionali e ben poco di quell’imponente apparato bellico, tecnologicamente avanzato, che hanno nelle retrovie.
Secondo però il direttore della Cia, Burns, “Putin raddoppierà gli sforzi. Potremmo avere davanti alcune settimane molto brutte”. I russi si preparano a utilizzare contro le città la massima potenza di fuoco dell’aviazione?
Non credo che sia in arrivo un’offensiva generale su tutte le città dell’Ucraina.
Perché?
Sono in atto, per usare il linguaggio di Putin, tre operazioni speciali, lungo la fascia sud-est dell’Ucraina: una davanti al mar Nero, attorno alla città di Mariupol; un’altra nel Donbass e la terza a Khirkhiv. Sono tre operazioni tattiche, che hanno cioè obiettivi limitati, perché i russi non hanno la forza né hanno pianificato un’offensiva per conquistare tutta quella fetta di territorio ucraino.
E su Kiev?
La faccenda qui è ben diversa, è un’operazione di livello leggermente superiore. La presenza della lunga colonna di mezzi pesanti attestata sulla direttrice per Kiev ha una valenza politico-strategica: in questo modo Putin, che ha messo in conto di subire anche qualche perdita, esercita non una deterrenza, ma una pressione politico-militare costante, allo scopo di far succedere qualcosa. È una presenza che non ha limiti di tempo, è dettata da eventi che devono succedere e che possono sfociare in un attacco o in un inasprimento di questa pressione.
Che tipo di eventi?
Possono essere di tipo operativo, per esempio la fornitura di jet militari dalla Polonia o da un altro paese esterno al conflitto. Possono essere accadimenti interni all’Ucraina, come l’ipotesi che a Kiev si decida di scendere a patti con la Russia per accordarsi anche su alcuni punti. Anzi, in tal caso potremmo anche assistere al ritiro completo delle forze intorno alla capitale. Oppure sono fatti esterni: se dalla Nato o dalla Ue arrivasse la disponibilità a non insistere, almeno nel breve termine, su posizioni che al momento sono soprattutto ideologiche.
Che cosa intende dire?
L’ingresso nella Ue ci può stare, ma una cosa è chiedere l’adesione, una cosa è dire che va bene e una cosa è ratificare l’accordo all’unanimità, da parte di tutti i 27 parlamenti nazionali. E per l’ingresso nella Nato gli Stati che devono approvarlo sono 30. Il procedimento dell’unanimità consente a uno Stato anche minuscolo di poter impedire l’adesione. Se una simile obiezione fosse stata adottata in uno dei precedenti otto cicli di espansione della Nato, oggi non saremmo in questa situazione…
Secondo lei, l’esercito russo non ha fatto i conti con la capacità di combattimento e di resistenza dell’esercito ucraino?
L’esercito regolare, formato e addestrato alla scuola sovietica, è in grandissima parte dislocato e impegnato soprattutto negli scontri nel Donbass. Tenendo conto che di solito il rapporto fra unità combattenti e supporto logistico è di uno a sei, significa che su un totale di 200mila soldati ucraini sono 35mila quelli in grado di resistere a un attacco o di portare una controffensiva. Kiev, invece, come le altre città, è oggi difesa dalla polizia ucraina, dalle milizie territoriali, dai mercenari pro-Ucraina e dai volontari. E se ci fosse un tentativo di ingresso con la forza nella capitale, queste componenti si opporrebbero e risponderebbero di certo. Ma questa separazione non dovrebbe esserci, è un elemento di vulnerabilità.
Anche ieri ad Antalya i negoziati di pace non hanno fatto progressi. Un brutto segnale?
Diciamo subito che lo stesso Lavrov ha ricordato che Antalya non poteva essere la sede adatta. Le trattative su qualcosa di più sostanziale sull’Ucraina potrebbero semmai saltar fuori dai colloqui riservati fra i vari leader internazionali.
C’è chi sostiene che Putin si presenterà davvero al tavolo con la volontà di negoziare solo quando Kiev sarà accerchiata e fiaccata. Che ne pensa?
C’è la possibilità che l’esercito russo arrivi ad accerchiare e tagliar fuori Kiev: è uno degli eventi di cui parlavo all’inizio. Se Putin dovesse vedere che con la sola pressione militare, senza muovere le truppe, non ottiene risultati o se dovesse vedere una recrudescenza, cioè una mossa e non solo chiacchiere e propaganda, dell’ostilità del governo ucraino, quella di accerchiare la capitale con carri armati e artiglieria, facendo affluire nuove truppe, sarebbe un’opzione militare per isolare la città almeno dalla parte orientale del Dniepr.
La Casa Bianca ha avvertito del rischio che la Russia “usi armi chimiche” in Ucraina, mentre Cina e Russia accusano gli Stati di aver allestito nel paese laboratori per le armi biologiche. Solo disinformazione o c’è qualcosa di concreto?
Per mettere in atto una guerra chimica servono due requisiti: la disponibilità dei mezzi, che ci sono, e la volontà di usarli. Ma la Russia non ha interesse a una guerra chimica, che non avrebbe senso neppure dal punto di vista militare: il lancio di armi chimiche rende i territori in cui sono state impiegate impraticabili alle stesse truppe russe. In questo conflitto è chiara l’intenzione di colpire e distruggere a vicenda gli obiettivi militari e paramilitari.
E l’Ucraina?
Se per caso possedesse armi chimiche, rappresenterebbe il pericolo maggiore, soprattutto quando e se si trovasse nelle condizioni peggiori, vicina cioè alla resa. Ma in tal caso dovrebbe farvi ricorso non nelle città, dove vive la popolazione civile, ma solo là dove sono presenti grossi concentramenti di truppe nemiche e in territori disabitati. Ma il diradamento dei soldati è la prima regola per evitare di diventare facile bersaglio di armi chimiche, ma anche convenzionali o termobariche.
A tal proposito, secondo il governo britannico, Mosca ha ammesso di aver utilizzato bombe termobariche, in grado di distruggere bersagli imponenti o di vaporizzare le persone con la potentissima onda d’urto sprigionata. A cosa servirebbero in questa guerra?
Sono bombe ormai collaudate, dai tempi della battaglia di Tora Bora, in Afghanistan, nel 2001: là servivano per stanare i mujaheddin dalle grotte. Potrebbero servire per distruggere scantinati o rifugi in cui sono ammassati materiali bellici.
È stata segnalata la presenza in Ucraina dei mercenari del gruppo Wagner. Che compiti potrebbero avere? Azioni di sabotaggio? Missioni per uccidere lo stesso Zelensky?
Il gruppo Wagner è presente in Ucraina da sempre, e non è il solo, visto che sul terreno operano anche le forze speciali e i 20mila mercenari che sono andati a combattere per Kiev. Per ora la Wagner è impegnata soprattutto nel Donbass, con il compito di eliminare tutto ciò che ostacola o mette a repentaglio la sicurezza e la sussistenza stessa delle due repubbliche filo-russe. Quanto alla loro presenza a Kiev, entrare nella capitale è molto pericoloso, però questi mercenari sono professionisti addestrati a mimetizzarsi e ad andare a stanare il nemico. E nel loro mansionario è prevista anche l’eliminazione fisica di singoli obiettivi. Ma non è interesse di Putin far fuori Zelensky.
Ma il presidente ucraino non è oggi il nemico numero uno di Putin?
A Putin farebbe molto comodo uno Zelensky, con tutta l’autorevolezza che si è conquistato presso il popolo ucraino, che dovesse ammorbidire le sue posizioni, molto più che uno Yanukovich o un Poroshenko qualsiasi, che non hanno un gran seguito popolare…
È interesse dunque di Putin portare al tavolo delle trattative uno Zelensky che accetti le sue richieste, oggi considerate irricevibili?
Non si tratta di far accettare. È quello che abbiamo fatto a Dayton per porre fine nel 1995 alla guerra in Bosnia-Erzegovina, “costringendo” i tre presidenti, il serbo Milosevic, il bosniaco Izetbegovic e il croato Tudman, a firmare l’accordo. Ma con Zelensky non è il caso, penso piuttosto che prima o poi qualcuno gli suggerirà di abbassare il suo livello di ambizione. La vera gran bella notizia ci sarà quando al tavolo del negoziato Russia e Ucraina si siederanno non con l’elenco delle richieste che ciascuno vuole, bensì con le proposte su ciò che si è disposti a cedere. Dipende dai due leader e soprattutto dai loro apparati, che non sono sempre monolitici. Non esistono gli uomini soli al comando.
(Marco Biscella)
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