11 gennaio. Fila 14, posto 23. Mia usuale “postazione” di lavoro al Teatro dell’Opera di Roma. È la prima di un ciclo di rappresentazioni de “L’Elisir d’Amore” di Gaetano Donizetti, ripresa di un allestimento del 2011. Si passa dalle nebbie del “Don Carlo” di Verdi visto ed ascoltato a Firenze l’8 gennaio ad un luminoso villaggio nei Paesi Baschi, stilizzato (scene di Nicola Rubertelli, costumi di Carlo Poggioli, luci di Vinicio Cheli) ed un po’ troppo affollato (regia di Ruggero Cappuccio) da acrobati, giocolieri e chi più ne ha più ne metta. In questa produzione non è chiaro se siamo nei Paesi Baschi o piuttosto in un paesetto del Mediterraneo. L’équipe che cura l’azione scenica viene dal teatro sperimentale campano; di conseguenza, ci si sentiva sotto il sole che riscalda i comuni vesuviani. Anche gli acrobati e i giocolieri sono più nostrani che baschi. Tuttavia, non si è caduti in lazzi e frizzi come si sarebbe potuto temere.



La vera sorpresa della serata è il Nemorino di John Osborn. Lo conoscemmo quando, circa venticinque anni fa, approdò a Pesaro al Rossini Opera Festival con una nidiata di giovani tenori americani (con lui Lawrence Brownlee, Micheal Spyres, poco prima di lui Chriss Merrit, Rockwell Blake ed altri) che avevano mantenuto la tradizione del “bel canto” di agilità ed una voce melodiosa. Da allora, è passato più di un quarto di secolo. Osborn ha preso diversi chili e non è più il giovane snello ed atletico di allora, ma, pur cinquantenne, la voce è rimasta intatta (non usurata come quella, ad esempio, di Jonas Kaufmann, costretto spesso a cancellare). All’Opera di Roma, Osborn è stato protagonista di Benvenuto Cellini nel 2016, Fra Diavolo nel 2017, Les vêpres siciliennes, spettacolo inaugurale della stagione 2019-20, e I puritani nel 2022.



Molti applausi a scena aperta. L’applausometro è andato alle stelle quando Osborn ha affrontato la temibile “Una furtiva lacrima”, in cui, accompagnato quasi unicamente dal fagotto, ha dato prova di grande maestria, sfidando il Si bemolle della prima strofa e andando dolcemente al Re bemolle della seconda al Do di petto e al Si naturale finale. Un’interpretazione memorabile anche in quanto il timbro chiarissimo riesce a esprime tutte le sfumature (anche il “Sì naturale”) di un “larmoyant” tenerissimo e dolcissimo tra cui “Cielo, si può morir” tinto da pulsioni erotiche che esplodono all’entrata in scena di Adina. Il pubblico ha richiesto a gran voce il bis e le ovazioni non sono terminate sino a quando Osborn non ha concesso di ripetere l’intera aria. Altri applausi scroscianti e richiesta di un nuovo bis, che non è stato concesso. È cosa rara che venga bissata un’intera aria, specialmente della difficoltà di “Una furtiva lacrima”. L’aria, però, è la chiave per comprendere l’intera opera.



Commentando varie messe in scena de “L’Elisir d’Amore” su questa ed altre testate ho tenuto a sottolineare che si tratta di un “melodramma giocoso” (tale la dizione ufficiale) di Felice Romani messo in musica da Gaetano Donizetti. Come tutti i capolavori è irto di trappole che, nelle esecuzioni più sempliciotte, si cerca di celare accentuando frizzi e lazzi resi possibili dal libretto. E’ un lavoro della piena maturità di un Donizetti trentacinquenne e sulla cresta dell’onda in quanto richiesto dai maggiori teatri. Si colloca, inoltre, come unica opera apparentemente leggera tra tanti drammi cupi (“Anna Bolena”, “Fausta”, “Ugo Conte di Parigi”, “Torquato Tasso”, “Lucrezia Borgia”) che caratterizzano un periodo creativo del compositore bergamasco travagliato da drammi personali e dai primissimi accenni del male che, dieci anni dopo, lo avrebbe portato alla pazzia e alla morte.

Non è un lavoro “buffo” di per sé, ma un perfetto meccanismo in cui si combinano vari generi, alcuni dei quali comprensibili solo al pubblico del 1832, anno della prima (o giù di lì). Dei quattro protagonisti, unicamente il basso Dulcamara appartiene alla categoria dei “buffi”. Belcore è una satira raffinatissima, invece, delle convenzioni dell’“opera seria” in via di estinzione (si pensi al “Come Paride vezzoso”); Nemorino e Adina sono personaggi, anche vocalmente, da “comédie larmoyante” (quale, nel teatro italiano, “La Gazza Ladra” rossiniana): non per nulla sono stati tra i cavalli di battaglia di Giuseppe Di Stefano, Nicolai Gedda, Carlo Bergonzi, Afredo Kraus il primo e Bidù Sayao, Renata Scotto, Mirella Freni, Joan Sutherland, la seconda. Ciò crea discrasie tra la parte musicale e l’azione scenica in questo pur pregevole allestimento romano. “L’Elisir” di Felice Romani e Gaetano Donizetti è un mirabile gioiello da toccare con delicatezza e senza mischiarlo con monili (né di plastica né di Swarowki).

Non dimentichiamo che le interpretazioni più complete di Luciano Pavarotti, quando era nel fulgore della sua carriera, sono state proprio quelle in cui vestiva (con la sua mole) i panni del giovane e tenero contadinello in mal d’amore. Alle trappole vocali, si aggiungono quelle orchestrali. Pur nella piena maturità, Donizetti non ebbe nell’“Elisir” la compostezza orchestrale di altri suoi lavori, quali quelli intitolati alle tre regine Tudor o le opere composte in Francia.

L’equilibrio orchestrale è instabile con i fiati (principalmente i tromboni) che tendono a sovrastare gli altri strumenti e in certi momenti a coprire i cantanti attori. “L’Elisir”, infine, è stato pensato per un teatro (quello, milanese, della Cannobbiana) di dimensioni medio-piccole, ove nessuno degli esecutori dove sforzarsi.

Molto brava, come sempre, l’orchestra guidata da Francesco Lanzillotta: ha fatto sentire il velo di melanconia, che pervade tutta la partitura, pure nei momenti più comici. Di gran livello il coro preparato da Ciro Visco.

Andiamo alle voci. Alessio Arduini (un tronfio Belcore), Simone De Savio (un superbo e presuntuoso Dulcamara) e Giulia Mazzola (una dolce Giannetta) sono solidi esperti dei rispettivi ruoli; quindi, si è scommesso con la certezza di vincere.

Di Osborn si è detto. Adina è Aleksandra Kurzak, una star internazionale, di casa al Metropolitan, per la prima volta a Roma. Il soprano polacco è figlia e allieva di Jolanta Zmurko, accanto alla quale ha debuttato sulle scene, ha iniziato la sua carriera come soprano di coloratura, interpretando parti come quella della regina della notte nel Flauto magico o di Olympia ne I racconti di Hoffmann. Ha poi allargato il suo repertorio con ruoli da soprano lirico come quello di Mimì ne La bohéme o Desdemona nell’Otello di Verdi, spingendosi fino a toccare il verismo con Santuzza in Cavalleria rusticana. Ora, quindi, ha la vocalità di un “soprano assoluto” dal registro molto ampio. Il ruolo di Adina è ambiguo, ma non di soprano lirico di coloratura (come spesso eseguito). È tale nel rondò finale ma in altri momenti (“Ah! Fu con te verace”) pare anticipare i soprani verdiani. Quindi, scelta giusta per il ruolo.

Al calar del sipario, lunghi prolungati applausi per tutti (ma con qualche protesta per la regia) ed ovazioni per Osborn.