Per che cos’è questa vita che ci troviamo a vivere? Che cosa ci stiamo a fare al mondo? La natura di queste domande può sembrare lontana o astratta finché la cronaca non ci fa incappare in storie come quella di Azzurra, una giovane donna di 33 anni che, durante la gravidanza, scopre di essere affetta da un tumore che credeva aver sconfitto anni prima, ma che improvvisamente si ripropone e dinnanzi al quale la ragazza decide di non curarsi per evitare danni al bambino. Ma Azzurra non ce la fa, il tumore è più forte di lei, e la morte se la porta via. Suo figlio viene fatto nascere alla 32esima settimana, adesso ha 8 mesi.
Dividersi tra chi sostiene la scelta di Azzurra come coraggiosa e chi invece la biasima come miope non serve a gran ché, soprattutto non risolve il punto centrale della vicenda: finché non sai perché sei vivo, che cosa ci stai a fare sulla Terra, ogni azione che compi non obbedisce ad una consapevolezza che hai, ma ad un istinto che senti, ad un’idea che ti sei fatto, ad una convenienza. L’uomo è stretto tra queste due alternative: l’essere consapevole o il procedere a tentoni, prigioniero della moda, di quello che in quel momento il costume e la società propongono e impongono come la cosa migliore.
Dentro questa alternativa, tuttavia, se ne nasconde una ancor più radicale: crescono sempre di più le famiglie no-kids, le coppie che non vogliono avere figli perché non desiderano diventare genitori. Il senso comune esalta queste relazioni come legami finalmente liberi, emancipati dai dettami di una struttura patriarcale e funzionale alla procreazione. Chi, al contrario, intuisce che la vita non è fatta per essere trattenuta, ma consegnata, invece si interroga: come è possibile arrivare a desiderare di non generare, quale pericolo intravedono coloro che si rifiutano di mettere al mondo dei figli?
Le risposte sarebbero tante e molte non sarebbero neanche di nostra competenza, ma il vero tema di queste vicende è lo sguardo sull’altro come pericolo, come problema, come ostacolo. Nella visione di queste coppie l’uomo non si realizza donandosi, ma trattenendosi e prendendosi cura di sé. Eppure la fecondità è la strada normale della felicità perché non si è felici se non si è fecondi. Ed è questa, in fondo, l’intuizione di Azzurra, che decide di mettere da parte sé per provare – come può – a salvare l’altro, a donare all’altro la possibilità di vivere.
Ciascuno di noi è nato non per accumulare affetto, ma per portare bene nelle vite degli altri, per costruire per loro uno spazio di vita. Viviamo un tratto della storia in cui l’individualismo figlio della rivoluzione del ’68, e ancor prima di una concezione totalitaria della libertà affermatasi con l’illuminismo, illude l’uomo che la realizzazione di sé coincida con il compimento dell’Io, mentre un Io si compie solo se il suo venire al mondo genera uno spazio di vita più grande di quello che lo ha fatto nascere, uno spazio di vita che divenga vita per altri, che si trasformi in casa per tutti. Sarebbe interessante ascoltare le ragioni dei No-Kids, comprendere se davvero coltivino questa concezione pericolosa e minacciosa dell’altro. E sarebbe anche bello capire le motivazioni ultime che hanno mosso Azzurra e le sue esatte condizioni mediche. Ma nessuna delle due cose è possibile; quello che possiamo fare è stare di fronte alla grande domanda che ci riguarda tutti, quella che si leva al Cielo per comprendere chi siamo, da dove veniamo, per cosa il nostro cuore e la nostra vita sono stati fatti.
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