A Crema ci vuole la voce della sindaca Stefania Bonaldi per trovare un po’ di umana incredulità e indignazione per quanto accaduto alle 13 di sabato scorso nel quartiere Ombriano: una donna tra i 30 e i 40 anni ricoverata presso una struttura psichiatrica della zona, è uscita dall’edificio e dopo aver raggiunto un campo si è cosparsa di benzina dandosi fuoco.
Un passante, vista la scena agghiacciante, è immediatamente sceso dalla macchina e ha tentato di spegnere le fiamme con quello che aveva, e cioè degli indumenti, una coperta, degli stracci. Ha cercato di telefonare al 113–112 ma nessuno rispondeva, ci sono stati ritardi, e così, alla fine, per la donna che si era data fuoco non c’è stato più nulla da fare. Certo, si dirà, una tragedia causata dalla follia e dalle lentezze del sistema. E invece non è stato così. Così, come ha asserito la sindaca, sarebbe stato normale: anche se da rimanere impietriti dallo choc.
Invece il contesto, come ha raccontato su Facebook il soccorritore con il permesso della sindaca, è stato agghiacciante. Perché mentre il passante cercava di diventare un “eroe normale”, attorno a lui si era creato un circo “bestiale” di una ventina di persone che guardavano e filmavano con il telefonino. Erano un contorno di persone con il telefonino in mano e che riprendevano la scena. Come ai tempi della nave Concordia o della tragedia a Novi Ligure o in Val d’Aosta, alcune persone si fermano sul posto solo per avere un ricordo dell’orrore. Senza coinvolgimenti né riguardi per la vita, per la morte, per la sofferenza di chi c’è o non c’è più.
Il soccorritore, indignato per l’accaduto ha scritto alla sindaca Bonaldi che, d’accordo con lui, ha pubblicato un post su Facebook con il suo racconto, poi confermato ai poliziotti. «La signora bruciava ed io ero l’unico che cercava di fare qualcosa. Se gli spettatori di questa tragedia – ha aggiunto con acutezza – hanno avuto la freddezza di prendere il telefonino ed immortalare la scena, anziché correre in aiuto o chiamare i soccorsi, allora dobbiamo farci delle domande”.
Perché queste persone si sono comportate come se si trattasse di un videogioco o di una scena di un film dell’orrore? La vita non è un film e di mezzo c’è la differenza di cui tutti dovremmo farci carico. Siamo chiamati ad essere paladini della vita sempre ma soprattutto quando si tratta di vite piegate dal dolore come è probabile avvenisse per la persona morta, uscita dalla struttura psichiatrica. L’unica spiegazione possibile di una tale tragedia è il dilagare della cultura dello scarto. Una malattia che ci rende apatici anche di fronte al dolore più grande. Questa cronaca è la vittoria di una cultura della morte che, tra le altre cose, ignora la malattia mentale e che, immersa in una realtà virtuale dove non c’è gioia vera, non conosce il dolore vero e la vita vera. Una cultura frutto di una ferita profonda dell’umano, e che omologa il diverso a scarto o a fenomeno da baraccone.
A quei passanti che certamente conoscevano l’esistenza della struttura psichiatrica e che potevano presumere da dove venisse la signora che si era data fuoco, non interessava chiedersi quale dolore spingesse una persona a darsi fuoco: interessava solo la scena “cult” da mandare agli amici per ricevere un like, per sentire una scarica di adrenalina e per poter dire in primo luogo a sé stessi: “Non sai cosa mi è successo oggi”.
Quella signora aveva bisogno almeno di rispetto, d’amore, di comprensione. Tutte qualità che evidentemente non possedevano quella ventina di persone. E noi siamo come loro?