Un comunicato duro quello dell’ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale dopo il suicidio in carcere di una donna a Torino: sarebbe uscita il 21 agosto, tra meno di due mesi. La detenuta avrebbe terminato la pena che stava scontando dal ferragosto del 2019: era stata condannata a quattro anni e 10 mesi ma il suo, in carcere, era stato un percorso positivo vista la mancanza di sanzioni disciplinari, la concessione di quasi un anno di liberazione anticipata, la collocazione nella sezione ‘a trattamento intensificato’.



Nella nota, il Garante sottolinea con dolore che “La sua morte va ad accrescere, in una linea di tendenza drammaticamente costante, il numero dei suicidi in carcere del 2023: 32, a metà esatta dell’anno. Sempre con la premessa che l’atto del togliersi la vita richiede il rispetto dovuto all’insondabilità di una decisione così intima e tragica, il Garante nazionale deve, ancora una volta, mettere in luce come il fenomeno dei suicidi in carcere non possa essere ricondotto in modo semplificato alle condizioni materiali degli Istituti o al loro affollamento”.



Il Garante: “Un buco nero senza vie d’uscita”

Il suicidio in carcere di chi è prossimo all’uscita in libertà richiede un’ulteriore riflessione. Perché, quando mancano pochi mesi alla liberazione, dopo aver scontato una lunga pena, si sceglie di togliersi la vita? “Non è ragionevolmente riconducibile a elementi, come il degrado delle strutture o la densità della popolazione detenuta, che si sono sperimentati lungo tutto il corso della detenzione” spiega il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Nel comunicato, l’ipotesi che chi scelga di togliersi la vita poco prima dell’uscita dal carcere, lo faccia perché non vede una via d’uscita: “Una riflessione analoga vale per chi si suicida a poche ore, a pochi giorni dall’ingresso in carcere, 15 nel 2022, sul totale degli 85 suicidi, di cui 10 nelle prime 24 ore: oltre alla drammaticità del vissuto che ha determinato la detenzione, non è tanto l’impatto con le condizioni del carcere a poter determinare quel gesto, quanto la percezione della persona di essere caduta in un buco nero senza vie d’uscita“.



Chi sceglie di suicidarsi in carcere, poco prima dell’uscita, lo fa per “mancanza di prospettive di un effettivo reinserimento nella vita sociale, di riferimenti di sostegno, di possibilità di superamento dello stigma sociale, avvertito come presente e inalterato. Per questo e più ancora che per tutte le altre situazioni, la morte di chi è vicino a tornare in libertà interroga e coinvolge implacabilmente tutta la società civile: le reti di sostegno sociale come l’intera comunità, assenti rispetto al dovere civico di reintegrare chi ha terminato di scontare una pena“, conclude il Garante.